Il suicidio è un gesto estremo sintomo di un malessere interiore che l’individuo non era più un grado di sopportare. Se, poi, chi lo compie trascina con sé nell’incognita della morte anche chi ama – è accaduto venerdì scorso in un quartiere di Rimini dove una donna di quarant’anni si è gettata dal tetto di un condominio di cinque piani con in braccio il figlio di sei anni, entrambi sono morti sul colpo – compie, paradossalmente, anche un estremo atto d’amore in quanto, nella sua logica malata, è convinto che senza di sé la persona amata resterebbe per sempre sola soffrendo le pene dell’inferno.
Ho usato il termine logica malata perché quando si compie un gesto estremo è segno che chi lo compie ha perso i lumi della ragione. Nel caso sopraccitato pare che la donna fosse preda della depressione, un male subdolo che erode lentamente le certezze e l’autostima di chi ne è affetto fino a farlo sentire inutile, immeritevole di vivere. La sua origine sarebbe la risposta psicologica a un evento traumatico che mina le fondamenta su cui edifichiamo la vita: la fine di un amore in cui credevamo, la perdita del lavoro che ci garantiva la dignità di esistere, stress e altro.
Al di là delle cause scatenanti, solo chi ha avuto la sventura di confrontarsi con lo spettro della depressione, seppure di sfuggita, sa bene che spesso i depressi non palesano alcun segnale esteriore che lasci intuire il loro malessere. Al massimo possono apparire infelici, svogliati, stanchi. Ma, non appena glielo si fa notare, si illuminano con un freddo sorriso per smentirti, affermando: “tutto bene, sono solo un po’ stanco!”.
Eppure basterebbe un minimo di attenzione per comprendere quando ci si trova al cospetto di un’anima malata. Purtroppo, persi nei vertiginosi ritmi imposti dalla società, quasi sempre lanciamo un’occhiata fugace al prossimo, senza minimamente curarci di lui, impegnati come siamo nel dover raggiungere ad ogni costo gli obiettivi che ci eravamo preposti perché se non li realizzassimo ci sentiremmo dei falliti.
Con questo non voglio assolutamente insinuare che la donna che si è suicidata a Rimini, così come tanti altri suicidi, non fosse oggetto d’attenzione da parte dei propri cari. Ma, come ben sa chi ha dovuto lottare contro la depressione, nel momento in cui nella mente iniziano ad affacciarsi strani pensieri si cerca l’aiuto degli altri. Seppure con fare incerto, tanto che spesso la richiesta d’aiuto è scambiata per mera ricerca di compassione o bisogno di attirare su di sé l’attenzione. Per questo molti depressi nascondono il proprio malessere interiore. A nessuno piace sentirsi criticato, offeso, deriso, considerato un incapace, un disadattato.
Il malessere interiore, però, lo si può nascondere fino a che si è ancora in una condizione mentale dove i fragili equilibri che regolano l’Io non si rompono del tutto. Fino allora si è ancora in grado di badare a se stessi. Tuttavia è proprio in quei momenti che occorrerebbe avere accanto chi sappia farci sentire importanti e utili, sappia dare un senso alla nostra vita, sappia fungere da pilastro a cui appoggiarci nel momento in cui stiamo per crollare.
Quando tutto questo viene a mancare e i medicinali, se assunti, iniziano ad alimentare nella mente strani pensieri – uno degli effetti collaterali degli antidepressivi è l’insorgenza di manie suicide – il passo verso il baratro è quasi inevitabile.
È facile dire di un suicida, “non ci stava con la testa”, “stava vivendo un momento difficile”, “non ha avuto la forza di reagire”. Difficile è considerarne i gesti, gli sguardi, il tono della voce e le frasi che sussurra prima di compiere il gesto estremo. Se ponessimo la giusta attenzione a questo poker di messaggi inconsci molto probabilmente potremmo correre in suo aiuto prima che sia troppo tardi.
Come ho già detto spesso il depresso sa nascondere il proprio malessere mostrandosi ilare, solare, di buona compagnia. Per cui a nessuno verrebbe in mente che quella stessa persona starebbe pianificando di farla finita.
Sì, pianificare! Il suicidio lo si studia nei minimi dettagli. Questi sono i pensieri strani a cui mi riferivo all’inizio di questo breve scritto. Quando si è stanchi di vivere ci si inizia a guardare intorno, cercando il modo più sicuro per farla finita: si misurano con lo sguardo le altezze dei palazzi per stabilire da dove converrebbe buttarsi per essere certi che il volo risulti letale; si consultano i siti internet per individuare il metodo meno doloroso e più sicuro per porre fine alla propria esistenza.
Tali accortezze non sono solo mirate ad accertarsi che saremmo in grado di riuscirvi davvero, ma anche perché vogliamo che chi amiamo e ci ama soffra soltanto per la nostra scomparsa. Senza doversi curare di noi per il resto dei suoi giorni nel caso in cui, anziché morire, restassimo invalidi.
L’anima ha pudore, le sue grida d’aiuto sono sussurri sopraffatti dalle stridenti e volgari urla dell’egoismo materiale. Questo, secondo me, è il vero dramma. Il suicida ne è una vittima. Criticarlo, giudicarlo è una mancanza di rispetto.
Se si ha fede, bisogna pregare per la sua anima. Se si è atei, bisogna tacere nel rispetto del suo gesto estremo. Tutto il resto sono chiacchiere vuote di significato.