Mi chiedo cosa sia la gentilezza, un dono verso chi amiamo? O un atto d’indiscusso amore verso l’altro? Non sappiamo cosa frulli nella testa di un uomo che decide di eliminare la propria donna, riusciamo a decifrarne la follia omicida solo grazie a cumuli di studi che cercano di spiegare i disagi di una mente corrotta, deviata. Tutto inizia in tenera età, ci dicono gli esperti, intorno ai due anni, quando un bambino deve necessariamente staccarsi dalla propria madre. Lui ha bisogno di identificarsi nel suo genere, e lasciare il rapporto simbiotico con la genitrice diventa una necessità. È proprio lì che avviene il cambio, un attimo che decide il futuro dell’uomo che sarà.
Dopo l’ennesimo atto di violenza di genere, mi chiedo se il film sceneggiato e diretto da Paola Cortellesi, non sia la prova legittima di un delicato archibugio, diretto a sputare fuoco senza spargere i semi della violenza, assemblato per illuminare gli angoli reconditi della violenza, unica ferita aperta in cui le donne hanno gettato il cuore. Dopo decenni di soprusi siamo riuscite ad arginare i fiumi neri? Quelli in cui annegavano le speranze, o meglio la serena voglia di vivere.
Nel film C’è ancora domani, scomparirà persino il colore, un quadro color seppia dipinge il dramma di una donna, che interpreta nel secondo dopoguerra, la schiava condizione di sottomissione a leggi e codici non scritti, in cui si leggeva un solo articolo: violenza.
In un anonimo cortile di un quartiere popolare della capitale, si condividono gli stralci di vite tese alla sopravvivenza, manca tutto, il diritto alla privacy è in sostanza inesistente, cibo, vestiti, accessori, formano un carico di assenza inaccettabile. La guerra ha macerato i frutti nati dagli sforzi di chi ha alimentato il progressivo avanzare della Resistenza, restituendo macerie e dolore.
Nel buio di quelle casupole si continua a recitare una commedia senza nome, gli affetti sono ridotti a un lumicino, e l’estremo machismo esistente fa il resto.
La lotta di Delia, personaggio chiave del film, domina la scena, lei diventa la fonte primaria di un processo di rivalsa che, sebbene parta da lontano, riguarda oggi tutte noi.
Il profilo grottesco del racconto cinematografato, concede grazia e leggerezza, senza smussare gli angoli di un triangolo costituito da arroganza – abuso – denigrazione.
Il finale racchiude le già citate acque in cui erano annegate le donne, restituendo i corpi di ognuna di loro, asciugando le membra e permettendo di raggiungere la chimera, il sogno, la fede di una vita migliore.
Tutto ciò stride con la morte dell’ennesima vittima di femminicidio, inconsapevole giovane testimone di un processo di smaterializzazione dei sentimenti buoni, sostituito da un brutale senso di onnipotenza.
Ciao Giulia.