Dal 3 febbraio è in libreria DI SANGUE E D’AMORE (Homo Scrivens), il nuovo romanzo di Annamaria Varriale, autrice di Eravamo Tanto Ricchi che tanto successo di pubblico e di critica riscosse all’epoca della sua uscita.
Il racconto, strutturato attraverso un ricamo di storie che si intersecano l’una con l’altra mediante uno stile narrativo che, pur alternandosi tra la prima e la terza persona, mai perde di efficacia e di sostanza, catturano l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima pagina.
Se in Eravamo Tanto Ricchi l’autrice raccontò, con sussurrato pudore, vicende personali e spesso dolorose che riguardarono direttamente lei e la propria famiglia dagli anni venti alla fine degli anni sessanta, in questo nuovo romanzo, tra realtà e finzione, ci regala uno spaccato di società che va dalla prima guerra mondiale agli inizi degli anni ottanta epoca in cui realizzò il proprio sogno di diventare madre.
Anche in questo caso la fluidità e semplicità dello stile narrativo ricordano un placido fiume di parole che scorre lentamente a valle, smosso all’improvviso dalle rapide della vita rappresentate dalle difficoltà seminate lungo il percorso esistenziale da cui nessuno è esente. Ma, diversamente dall’opera prima dove, leggendo, sembrava di sfogliare un album fotografico, qui, pagina dopo pagina, si ha la sensazione di gustare una sostanziosa pietanza dal sapore agrodolce, preparata e cucinata dalla conversazione tra zia e nipote in un pomeriggio d’inverno.
Un escamotage ben strutturato che le consente di narrare vicende struggenti, tipo la tragica scomparsa di sua sorella Rita, in maniera sofferta e allo stesso tempo distaccata come si conviene a ogni scrittore vero.
Il romanzo è un intreccio narrativo costruito con un’architettura quasi magica dove, raccontando di gioie e dolori, l’autrice ci induce a riflettere su come qualunque azione compiamo nella vita, perfino la più estrema come un attentato terroristico, è finalizzata alla conquista della felicità.
Il senso di ciò è racchiuso in una frase che lei stessa pronuncia raccontando della reazione quasi comprensiva di suo padre quando gli comunicò la notizia del fallimento del suo primo matrimonio avvenuto quando era poco più che ventenne: “Aveva capito il mio disagio, il mio malessere, il mio bisogno della ricerca della felicità.”
Presumibilmente, seppure in maniera inconscia, è proprio la ricerca della felicità che l’ha indotta a scrivere questo nuovo gioiello narrativo che, anche se diverso sotto tanti aspetti, in maniera del tutto naturale si riallaccia al primo come se ne fosse l’ideale proseguimento.
A conferma di ciò l’appendice fotografica di cari ricordi familiari riprodotta anche qui alla fine del racconto, riportando come didascalie alcune frasi tratte dal libro.
Se volessimo dare un sottotitolo a questo nuova fatica narrativa della Varriale, potrebbe tranquillamente essere “Alla Ricerca della Felicità”. Perché, riflettendo, questo è il fine dell’esistenza umana, non ne esistono altri.