Vi sono donne che, seppur messe a dura prova dalle vicende della vita non ne vengono sconfitte e diventano anzi protagoniste di quella stessa storia che ha cercato di vincerle.
È il caso di Artemisia Lomi Gentileschi, una donna che riuscì ad affermarsi nella pittura – ossia uno dei campi nel passato generalmente riservato agli uomini – traendo forza dalle stesse esperienze che l’avevano segnata e donando alle sue eroine la propria tenacia e forza.
Artemisia – il cui nome fa anche riferimento all’arte (Arte-misia) – nacque a Roma l’8 luglio 1593 da Orazio e Prudenzia di Ottaviano Montoni. Primogenita di sei figli, rimase orfana di madre nel 1605 e cominciò subito ad attingere alla sua forza interiore avvicinandosi a quella pittura di cui il padre era maestro. Fu infatti l’uomo che, accortosi del suo talento, la guidò insegnandole i segreti del mestiere, l’arte della preparazione dei materiali, la macinazione dei colori, il confezionamento dei pennelli e avvicinandola alle opere di importanti autori ermetisti come Albrecht Dürer – tra le cui opere ricordiamo Melencolia (1541) – in cui sono presenti evidenti simbologie ermetiche cui Artemisia fa riferimento in alcune sue opere.
Artemisia è il simbolo della donna consapevole di essere in una società prettamente maschile e forse il presentimento di quanto le sarebbe accaduto trasuda nel dipinto che la fece conoscere al mondo “Susanna e i vecchioni” ispirato a un episodio dell’Antico Testamento che si riferisce a Susanna sorpresa al bagno da due uomini che frequentavano la casa del marito e minacciata di sottostare ai loro voleri pena la minaccia di diffamarla con l’accusa d’averla sorpresa mentre commetteva adulterio. Susanna non accettò il ricatto, subì l’ingiusta accusa finché il marito scoprì la verità e fu riabilitata.
L’anno dopo, nel 1611, il padre la pose sotto la guida del pittore Agostino Tassi ma l’uomo, in assenza di Orazio, la violentò e come Artemisia narrò “Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani.” Tassi promise di sposarla ma nel 1612 lei scoprì che era già sposato e il padre lo denunciò. Rinveniamo tracce di questa sofferenza nel suo dipinto del 1612-13 “Giuditta che decapita Olferne” conservato al Museo Nazionale Capodimonte di Napoli.
Durante il processo falsi testimoni danneggiarono la reputazione di Artemisia che fu obbligata a visite ginecologiche umilianti e torture finché finalmente il 27 novembre 1612 Agostino Tassi fu condannato (seppur non scontò la pena) e il giorno dopo l’esito del processo Artemisia sposò il pittore Pierantonio – da cui poi ebbe 4 figli – probabilmente spinta dal padre che cercò di farle riacquistare onorabilità.
La sua fama crebbe ma fu Napoli che la consacrò tra i maggiori artisti commissionandole nel 1630 – e fu il raro caso in cui ci si rivolse a una donna – 3 tele per la cattedrale di Pozzuoli al Rione Terra: S. Gennaro; L’Adorazione dei Magi; Santi Procolo e Nicea (dove notiamo influenze ermetiche in colori e simboli come il pavimento e le colonne) e Artemisia divenne parte integrante della città non per nascita ma per averne accresciuto il lustro e figurando pertanto tra le donne che ne hanno fatto la storia, come napoletana d’adozione.
Compì diversi viaggi lasciando le sue opere nei luoghi che visitò e nel 1641 tornò in quella Napoli che amò dove restò finché morì per la devastante peste, nel 1656.
Fu sepolta, al pari di grandi artisti, nella chiesa di S. Giovanni Battista dei Fiorentini di Napoli sotto la lapide “Heic Artemisia” oggi perduta.