Filosofa, ex docente di Estetica della Comunicazione alla Federico II e al Suor Orsola Benincasa, impegnata in svariati settori della comunicazione e dell’arte, Clementina Gily Reda è tra i maggiori esperti su Giordano Bruno del quale ha in corso la pubblicazione di una trilogia con la Stamperia del Valentino. Per anni si è interessata del “gioco” quale elemento formativo per l’uomo pubblicando diversi saggi sull’argomento. Ha fondato e dirige la rivista online wolfline.it
Professoressa la passione per Bruno nasce dai suoi studi filosofici o, viceversa, è stata la passione per il nolano ad avvicinarla alla filosofia?
No, Bruno è arrivato molti anni dopo. I miei primi studi sono stati sulla filosofia italiana, in particolare quella idealista che per altro non era assolutamente di moda: Croce e Gentile. Ero allieva di Raffaello Franchini, un crociano che fu allievo di Croce, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Tenga presente che negli anni 80/90 nessuno parlava di Croce, tranne che negli studi storici, ma nelle fondazioni si parla di un autore generalmente in modo poco critico. Io che invece tendevo a vedere la filosofia di Croce in modo alquanto critico mi sono ritrovata priva di interlocutori: come fanno tanti, e sono felici di farlo, anch’io potevo parlare allo specchio. Poiché a me invece è sempre piaciuto avere una discussione con le persone, ho incominciato a cambiare gli argomenti e tra questi nuovi incontri, Giordano Bruno è diventato dominante.
Lei è considerata tra i maggiori esperti su Bruno: il suo amore per il nolano è cresciuto nel tempo o è stato amore a prima vista?
È stato un amore a prima vista perché Raffaello Franchini aveva scritto nel suo libro sulla dialettica un capitolo su Bruno molto importante, per cui lo conoscevo anche da prima.
Quando si parla di Bruno è inevitabile fare riferimento alla filosofia ermetica e, seppure di riflesso, all’occultismo. Da persona razionale qual è come affronta questi argomenti?
Io credo che oggi queste discipline sono viste in maniera eccessivamente spiritualista. Mi spiego: c’è una tendenza a voler risalire all’approccio filologico, ai testi. Mentre bruno, pur essendo un ermetico, li trattava come una filosofia. Non era la filosofia di Platone e Aristotele, era una filosofia diversa ma altrettanto importante. Si pensi a Marsilio Ficino che, oltre alle opere di Platone, tradusse il Pimandro e il Corpus Hermeticum seguendone le indicazioni nella propria filosofia. In tutto il cinquecento c’era un’aria di grande interesse nei confronti di questa filosofia che, rispetto a quella di Aristotele, era molto legata alla Natura.
Lei sta pubblicando con STAMPERIA DEL VALENTINO dei volumetti su Bruno scritti in un linguaggio comprensibile anche per chi non mastica filosofia. Questa sua semplicità di linguaggio la caratterizzava anche quando insegnava, dando l’impressione che lei aborrisse il linguaggio accademico. Se davvero fosse così, perché?
Ritengo che l’importante per chi scrive è farsi capire. Questo purtroppo in filosofia sembra secondario, a volte hai addirittura la sensazione che chi scrive di filosofia non voglia farsi capire, anche perché molti che ne scrivono non sono filosofi. La realtà è che il filosofo vuole farsi comprendere. Il mio modello filosofico è Socrate il quale parlava con chiunque. Di Bruno non so se si possa dire altrettanto, visto che parlava con gli uomini potenti. Questo suo approccio elitario è però giustificato dal fatto che aveva un intento politico il quale sarà tema del secondo volumetto su di lui di prossima pubblicazione.
Nel suo primo libro su Bruno lei ipotizza che Shakespeare in realtà fosse Marlowe il quale, influenzato dalla presenza di Bruno alla corte di Elisabetta I di Inghilterra, si fece “morire” per poi ricomparire nelle vesti di Shakespeare. Questa ipotesi lei la supporta sostenendo che nel Faust di Marlowe vi sono molti riferimenti che riportano a Bruno e a Shakespeare.
Sì, ma non è una dimostrazione perché mancano pezze d’appoggio che dimostrerebbero questa trasformazione di Marlowe in Shakespeare. Però, come si dice in gergo, si tratta di una leggenda metropolitana supportata da una serie di coincidenze inequivocabili: Marlowe muore e poco dopo a Londra appare Shakespeare; il Faust di Marlowe dovrebbe essere stato pubblicato presumibilmente intorno al 1593 anno in cui Bruno fu imprigionato nelle segrete del Vaticano. Guarda caso nell’opera c’è un personaggio di nome Bruno anch’egli imprigionato nelle segrete del Vaticano… Marlowe sa benissimo che a Londra c’è Bruno e nella sua opera Faust chiede a Mefistofele di portarlo là dove c’è l’antipapa Bruno, il quale proveniva da uno dei suoi viaggi in Germania, perché bisognava salvarlo da una brutta fine! Un’ulteriore coincidenza è il fatto che in PENE D’AMOR PERDUTE di Shakespeare c’è un personaggio che si chiama Biron, o Brown, che per assonanza richiama Bruno, il quale si esprime nel modo in cui era solito farlo Bruno…
Lei precedentemente ha pubblicato con le Edizioni Albatros un saggio su Leonardo da Vinci, prendendo spunto dall’esposizione avvenuta alcuni anni fa del SALVATOR MUNDI al museo Donna Regina di Napoli. In quella sede si è espressa utilizzando quel linguaggio accademico che aborre, perché?
Allora ho fallito! (ride). Avrei voluto anche lì riuscire a trovare un discorso del tutto piano, ma sono stata ostacolata dal fatto di non aver potuto contare sulla serie come per Bruno. Per quanto riguarda Leonardo era mia intenzione scrivere una cosa e basta. Quello che potrebbe avermi condizionata nel modo di esprimermi è il mio essere studiosa di estetica. Francamente quel libro non lo avrei scritto, se l’ho fatto è perché considero Leonardo un autore di concetti visuali perfetti!
Un filosofo!?
No, perché non si esprime con parole ma con figure! Con concetti visuali intendo l’iconologia, ossia la scienza che studia che cosa c’è scritto nelle immagini. Soprattutto nel 900 che cosa vogliano dire i quadri è un argomento che ha interessato molti perché questa epoca è attraversata da una serie di arti del tutto criptiche, cioè non si capisce cosa rappresentino.
Lei a riguardo, se non erro, usa il termine ecfrastica: ce ne spiega l’esatto significato?
È un vocabolo che si usava nel medioevo, e ultimamente ha avuto, proprio in rapporto all’iconologia, un ritorni di attività. Esattamente è un metodo didattico per insegnare a parlare ai ragazzi: gli si metteva davanti un quadro e gli si chiedeva “che cosa vedi?”. Il ragazzo sapeva già cosa dire perché lo osservava: doveva concentrarsi sulla lingua, parlare correttamente, parlare bene, riuscire a convincere in rapporto a una sua tesi. Questa è l’ecfrastica classica, lettura delle immagini finalizzata a parlare bene. Come la intendo io è invece quella che Panofsky definiva “descrizione”: il primo passo per leggere un’opera è semplicemente mettersi davanti all’opera e descriverla.
Lei nel suo libro su Leonardo mette in risalto che mentre Leonardo è vissuto nel periodo centrale del rinascimento, Bruno ne ha caratterizzato la fine. Qual è un’eventuale punto di contatto tra loro, oltre ad aver vissuto due periodi distinti del rinascimento?
Non credo ve ne siano. Mi spiego citando il sottotitolo del mio libro su Leonardo, “l’eleganza dell’Io”, tema al quale sto lavorando molto: l’identità. Oggi come oggi siamo diventati trasparenti a noi stessi, non esiste una parola con la quale riusciamo a definirci, non c’è nemmeno più una parola per definire l’essere umano. Leonardo ha avviato questo concetto dell’eleganza dell’Io che è molto lontano da Bruno. L’uomo Bruno alla fine muore bruciato perché non vuole stare con nessuno, non accetta di avallare nessuna cosa e non accetta di affermare il contrario di quello che pensa. Nel momento in cui i sovrani o i principi che frequenta gli fanno capire che per essere accettato a corte deve diventare loro servo, Bruno scappa. Cosa che fa anche Leonardo, ma egli fugge alla corte di Amboise dove vive serenamente fino alla morte. Bruno invece è un apolide che alla fine viene arso vivo perché si rifiuta di abiurare le proprie idee, pretendendo di imporle agli altri!
Lei parlando di Leonardo ne mette in dubbio l’omosessualità, da molti storici ritenuta invece certa. A riguardo ho sempre sostenuto che Leonardo fosse un iniziato per cui aveva sublimato gli istinti carnali, trascendendoli, asservendoli alla propria creatività…
Lo penso anch’io. Lui è vissuto accanto a questa madre adottiva giovane, Albiera, moglie legittima del padre che lo concepì con una sedicenne alla quale lo sottrasse affidandolo a lei. Per Albiera Leonardo nutriva un amore infinito tanto che l’avrebbe ritratta un po’ in tutte le figure femminili che dipinse. Sono convinta che lui non l’abbia mai dimenticata.
Quali sono i progetti per il futuro di Clementina Gily?
Oltre alla pubblicazione del secondo volumetto su Bruno, invitare gli studiosi a pensare attentamente sull’intelligenza artificiale. Vorrei si capisse che l’intelligenza artificiale deve essere soprattutto applicata ai sistemi intelligenti come per esempio gli educational, ai film o alle abilità tecnologiche che si uniscono al racconto e che sono l’unico modo con cui gli uomini potranno evitare di scontrarsi, come stanno invece facendo ora, perché le vie troppo diritte della matematica portano urti continui essendo la via binaria velocissima e quando si corre troppo inevitabilmente ci si scontra!
One thought on “Clementina Gily, da Croce a Bruno passando per Leonardo: un viaggio nella filosofia | Gli articoli di Vincenzo Giarritiello”