Kýme (Cuma) fu la prima delle colonie di popolamento greche in Occidente., fondata ai danni delle locali popolazioni osco-sabelliche nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. ad opera di Euboici-Calcidesi precedentemente stanziatisi nell’emporion di Pithekoussai (l’isola di Ischia). In verità da alcuni anni è in discussione se l’insediamento di Ischia fosse solo un centro commerciale e artigianale (appunto emporion) oppure se fosse una vera propria colonia Polis.
Comunque sia le attuali informazioni ci dicono che i Greci collocarono l’acropoli della loro città su due terrazze del Monte di Cuma.
Nel tardo impero, diventata un castrum (rocca fortificata), l’acropoli di Cuma fu teatro delle guerre tra Goti e Bizantini; quindi fu conquistata e devastata dai Saraceni nel 915 d.C., viene trasformata in covo dei pirati per essere definitivamente distrutta nel 1207 dall’armata napoletana di Goffredo di Montefusco.
Cuma, il nome deriva dal nome greco Κύμη (Kýmē), che significa “onda”, facendo riferimento alla forma della penisola sulla quale è ubicata.
Al momento dell’arrivo dei Greci la collina dell’acropoli, oggi arretrata rispetto alla linea di costa, doveva formare un largo promontorio lambito dal mare.
Si trovano tracce di frequentazione dell’Età del Ferro e probabilmente anche del Bronzo finale (XI-X sec. a.C.).
Le prime ricerche nel territorio ebbero luogo nel corso del Seicento quando furono raccolte iscrizioni e statue fra le quali occorre ricordare il famoso busto di Giove (il Gigante di Palazzo), nel 1668, il viceré di Napoli, don Pietro Antonio d’Aragona, fece porre in cima alla salita detta poi salita del Gigante oggi via Cesario Console, verso Piazza del Plebiscito e oggi al Museo Nazionale.
Ben presto il Gigante fu per Napoli – e per 138 anni – quello che Pasquino fu per Roma e il Gobbo di Rialto per Venezia, ovvero il luogo dove si apponevano satire in versi e in prosa all’indirizzo delle autorità costituite. Persone sconosciute le scrivevano e altri le affiggevano, sfidando nelle notti oscure i posti di guardia poste a presidio. Infine Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone e re di Napoli dal 1806, non sopportando il sarcasmo napoletano che lo bersagliava continuamente, invece di porre una taglia sugli anonimi autori, se la prese direttamente col Gigante, ordinandone il “trasloco” dalla piazza alle scuderie di Palazzo reale. Ma la mattina stessa della rimozione si poterono leggere sul busto il testamento dell’amato e odiato Gigante: «Lascio la testa al Consiglio di Stato, le braccia ai Ministri, lo stomaco ai Ciambellani, le gambe ai Generali e tutto il resto a re Giuseppe». E tutti intesero quale altra “parte” riservasse argutamente al Bonaparte.
Dopo l’unità d’Italia gli scavi furono affidati all’inglese Stevens che portò alla luce una parte delle necropoli.
L’esplorazione dell’acropoli ebbe inizio della I guerra mondiale e continuate fra le due guerre da Gabrici, Spinazzola e Maiuri.
Dopo l’ultima guerra, gli scavi si sono concentrati nella città bassa, dove sono stati esplorati alcuni edifici della città ellenistica e romana e della necropoli.
Torniamo a Cuma.
Il paesaggio che i greci hanno visto dal mare è quello di una terra fertile, protetta da una fitta foresta, con il promontorio del Monte di Cuma proteso verso il mare, facilmente difendibile dalla terra e dal mare.
Anche Virgilio nel I secolo a.C. conoscendo il territorio decide di ambientare in questi luoghi il VI libro della sua Eneide”: Enea, fuggito da Troia in fiamme, dopo varie peripezie nel mediterraneo, sbarca a Cuma per incontrare la Sibilla Cumana, visitare il Tempio di Apollo eretto da Dedalo e per scendere agli Inferi ad incontrare il padre Anchise. Prima di partire erige la pira per Miseno il suo trombettiere precipitato in mare ed annegato.
Nel corso del VI sec. a.C., Cuma cercò di consolidare la sua presenza nel Golfo di Napoli con punti di appoggio lungo la costa. Ed è così che nacquero un porto a Miseno, un insediamento nella zona in cui sorgerà più tardi Puteoli, un altro sulla punta di Pizzofalcone e sull’isolotto di Megaride (ove l’attuale Castel dell’Ovo) e uno a Capri.
Il rinvenimento a Napoli, sulla collina di Pizzofalcone, di una necropoli greca con sepolture databili fra il VII sec. a.C. e la metà del VI, cioè al momento della piena fioritura di Cuma, conferma l’esistenza di un insediamento che prese il nome di Parthenope, dal nome di una sirena che vi sarebbe stata sepolta.
Quando la storia si intreccia con il mito ecco che compare Ulisse. Mentre passava al largo delle coste della penisola sorrentina che sapeva abitate da Sirene, fece mettere ai suoi compagni tappi di cera nelle orecchie per non sentire i loro canti ammalianti. Si fece legare all’albero della nave ordinando di non scioglierlo per nessun motivo.
Per questo che la sirena Partenope, vedendo che l’eroe greco, pur ascoltando il suo canto non accettava il suo richiamo, distrutta si gettò in mare uccidendosi.
La sirena Partenope, fu portata dalle correnti marine proprio tra gli scogli di Megaride (dove oggi sorge Castel dell ’Ovo).
Lì fu trovata da dei pescatori che la venerarono come una dea, una volta approdato sull’isolotto, il corpo della sirena si dissolse trasformandosi nella morfologia del paesaggio partenopeo.
Sulla morte di Partenope ci sono molte leggende, a me piace la versione che ne dà Matilde Serao nel suo libro “”Leggende napoletane“:
«Parthenope non è morta, Parthenope non ha tomba, Ella vive, splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene (…) quando vediamo comparire un’ombra bianca allacciata ad un’altra ombra, è lei col suo amante, quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate è la sua voce che le pronunzia, quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi, quando un fruscio di abiti ci fa fremere è il suo peplo che striscia sull’arena, è lei che fa contorcere di passione, languire ed impallidire d’amore la città. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale …è l’amore.». Matilde Serao.
Nel 470 a.C., i greci Cumani decisero di fondare una vera e propria città, scegliendo una zona più ad oriente della vecchia Partenope, zona che corrisponde all’attuale centro storico; il nome prescelto fu quello di Neapolis (“città nuova”), per distinguerla dal precedente nucleo urbano (Palepolis, “città vecchia”).
La città, secondo la tradizione delle città greche, era caratterizzata da cardi e decumani, ed piena di edifici di culto e di pubblica utilità.
Neapolis era un importante centro della cultura e della civiltà greca e ben presto la città e i suoi dintorni diventarono luogo privilegiato per le residenze estive dei nobili romani. A Puteoli e Sorrento furono costruite le lussuose ville di Scipione l’Africano, Silla, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, Bruto e Lucullo.
Ma anche Cicerone, Orazio, Plinio il Vecchio, Virgilio scelsero questi luoghi per il loro diletto e riposo trovando in questi luoghi ispirazione per la loro arte.