Quando fui contattato da Giovanna Di Francia perché l’aiutassi a raccogliere in un libro i post pubblicati sul suo blog in cui raccontava la propria esperienza di volontaria presso la casa circondariale femminile di Pozzuoli, vissi un dejavu. Per un attimo ritornai all’estate del 2006 quando coordinai un laboratorio di scrittura creativa presso la sezione femminile del carcere minorile di Nisida, raccontando in un diario settimanale sul mio blog quell’esperienza che per me resterà tra le più formative sia come uomo che come appassionato della scrittura. Facendone successivamente un libro, LE MIE RAGAZZE: RAGAZZE ROM SCRIVONO.
Seppure i nostri percorsi ed esperienze sono diversi – Giovanna opera da anni come volontaria presso il carcere di Pozzuoli, dopo aver effettuato un lungo percorso formativo. Io invece, mi approcciai a quell’esperienza sostenuto unicamente dalle mie precedenti esperienze di laboratorio creativo per ragazzi che tenevo presso una libreria di Pozzuoli, dall’entusiasmante idea che la vita mi stesse concedendo la possibilità di dare il mio piccolo contributo all’integrazione sociale di chi aveva sbagliato e dai suggerimenti degli operatori e delle operatrici carcerari che lavoravono a Nisida. Ma, soprattutto, dalla fiducia in me risposta dal direttore della struttura penitenziaria, il dottor Gianluca Guida. Essendo convinto che tutti nella vita, se sbagliamo, abbiamo diritto a una seconda opportunità, e forse anche a qualcuna in più, ritengo fondamentale il lavoro di quanti come Giovanna sacrificano il proprio tempo per dedicarsi al sostegno e al recupero di chi ha commesso degli errori, con la consapevolezza, però, che difficilmente ciò potrà avvenire. Ma se solo una di queste persone, una volta uscita dal carcere, riuscisse davvero a reintegrarsi nella società, sarebbe una grande conquista.
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Se qualcuno si chiedesse perché organizzare la presentazione di un libro in una chiesa, davanti all’altare, e per giunta subito dopo la messa, significherebbe che non conosce Giovanna. Ma, soprattutto, che non ha letto il suo libro. Oppure, se lo avesse letto, non è riuscito a penetrare il profondo significato che in esso l’autrice ha voluto infondere.
Per Giovanna il carcere non è solo un luogo di detenzione, dove le persone vengono recluse per espiare la pena dei propri reati, ma anche un luogo di redenzione, proprio come lo è una chiesa o un qualsiasi altro luogo di culto. Un posto in cui chiunque possieda un barlume di coscienza, ritrovandosi dietro le sbarre, soffra acquisendo la consapevolezza dei propri errori, dilaniato dai rimorsi della coscienza- a riguardo si legga Delitto e Castigo di Dostoevskij – e, mentre espia il proprio fio, inizia a riflettere su quanto ha commesso, provando vergona per se stesso e pena per i propri cari che non hanno modo di condividere la vita con lui, soffrendo a causa sua; ritrovando, attraverso la sofferenza interiore, la retta via.
Ma, come tutti i cammini di redenzione, anche questo, forse più degli altri, necessita di una guida “spirituale” che si prenda cura della pecorella smarrita e, prendendola per mano, giorno dopo giorno, si adoperi per riportarla all’ovile. Nel caso specifico la guida spirituale è rappresentata, non solo dal cappellano del carcere, il quale fa il proprio “mestiere”. Ma dalle volontarie che si recano dietro le sbarre per far sentire alle detenute la loro la vicinanza affinché si convincano che per loro non tutto è perduto; che la loro vita può avere ed ha ancora un senso e una speranza di futuro; donne che, ascoltando le loro storie tormentate, soffrono e piangono con loro, che offrono un’amicizia disinteressata. O, meglio, interessata sì, ma alla loro completa riabilitazione. Per cui con pazienza e amore queste donne cercano di conquistare la loro fiducia. Perché solo se si crea un rapporto empatico tra di loro, il miracolo della redenzione può realizzarsi.
Mi servo di un paragone forse esagerato ma che rende bene l’idea di ciò che sto dicendo: San Francesco fu fatto prigioniero durante la guerra tra Perugia e Assisi. E fu proprio in carcere, grazie alla confortante parola del Vangelo, che intraprese il proprio cammino di redenzione.
Nel caso specifico il Vangelo non sono solo le parole di Gesù, di cui si fa portavoce il cappellano del carcere, ma lo sono anche le parole e i gesti delle tante volontarie che nel più assoluto anonimato, quotidianamente o a giorni alterni, vanno in carcere a trovare le detenute, non soltanto per consolarle, ma anche per insegnare loro, mediante attività di laboratorio, un mestiere affinché, quando saranno nuovamente libere, avranno tra le mani uno strumento che consenta loro di rifarsi una vita.
Il libro di Giovanna, seppur povero di pagine, è denso di argomenti e induce nel lettore un’infinità di riflessioni. La vera protagonista non è la volontaria Amanda, ma Nanà, imprenditrice casertana della ristorazione per mense la quale è una vera e propria matrioska, quella bambolina russa che dentro di sé ne racchiude tante altre sempre più piccole. È grazie a lei che apprendiamo di Lorenzo, ragazzo transgender, costretto a stare in un carcere femminile perché all’anagrafe compare ancora con il proprio nome di donna, e di tante altre donne che si affidano a lei. Nanà è un vero e proprio deus ex machina che, grazie alla propria cultura, intelligenza, capacità empatica, riesce a risolvere le problematiche delle detenute in quanto, proprio come Amanda/Giovanna, sa ascoltare senza giudicare.
Il libro è scritto con uno stile fluido, semplice, direto, in alcuni punti molto intimista, come si conviene a un diario. E in effetti il libro è una sorta di diario: è il diario di Amanda, di Nanà e di tutte quelle detenute che raccontano loro le proprie storie per alleggerirsi la coscienza.
Il libro di Giovanna di Francia doveva essere presentato in una chiesa perché l’autrice non è soltanto una stimata professionista ma è anche, come lei stessa ammette con velato pudore, una donna di fede che crede nel perdono. Aggiungendo che, laddove l’uomo non può concederlo, come nel caso di chi sceglie la via della criminalità organizzata, il perdono è appannaggio solo di Dio!
Gli errori si pagano, ed è giusto che sia così. Ma ci sono errori ed errori. Ci sono quelli commessi perché si è avuto l’insana idea di mettersi alla guida della propria auto dopo aver bevuto qualche bicchiere di birra in più. E a questi si riferisce Giovanna quando parla di errori che meritano il perdono degli uomini.
Davanti alle donne di cui Giovanna ci racconta, riponiamo in terra le pietre che avremmo voluto utilizzare per lapidarle e riflettiamo su noi stessi. Io non sono un uomo di Fede, ma so che un tempo ci fi fu chi disse: chi è senza peccato scagli la prima pietra!