Porgere la vita nelle mani altrui, fa vacillare quel vago senso di onnipotenza, e ti fa capire quanto sia importante affidarsi al prossimo. Lo spiraglio di fiducia che si apre quando un medico ti offre la sua abilità, nel risolverti un problema di salute, possiede l’aura magica del miracolo.
Si parla spesso di malasanità, di ospedali simili a carnai, per fortuna devo allontanarmi da questa generalizzazione, e far scoccare una freccia a favore dell’ospedale Fatebenefratelli di Napoli. L’edificio che lo ospita è una meravigliosa struttura che risiede sulla collina panoramica di Napoli, infatti, per chi è fortunato, si può godere di una vista panoramica da togliere il fiato, dove la baia si estende in tutto il suo splendore.
Mi sono affidata all’equipe chirurgica capeggiata dal dottor Domenico Barbato, un luminare nel suo campo, uomo equilibrato e saggio, che dirige un reparto di eccellenza, dove ogni giorno si adopera un personale altamente qualificato.
Il tunnel che devi attraversare, prima di entrare in una sala operatoria, è lungo e tortuoso, sei attraversata da mille interrogativi, cui risposte sono custodite in un sentimento che segue i principi della fiducia. In quest’ospedale il colore predominante è il blu cobalto, come gli occhi di quel mare che splende nei giorni d’inverno, quando il clima terso incide sulle cromie delle acque. Dal quel liquido amniotico, fonte primaria di vita, sei accolto nei fondali di un microcosmo noto come: sala operatoria. L’atmosfera ha quasi del surreale, tutti corrono, tutti si muovono seguendo un ritmo preordinato, nulla è lasciato al caso. Non mancano battute, strizzatine di occhi, complice la perfetta armonia di una relazione professionale e amicale, che si respira sin dai primi istanti. Nessuno ha ignorato il mio stato d’animo, una brezza che sapeva di paura agitava la mia pelle, e per un attimo giuro che ho pensato di darmela a gambe. Poi è arrivata lei, la caposala, bellissima mora, il suo sorriso e la stretta di mano hanno avuto un effetto balsamico, ammorbidendo gli spigoli di quel prisma di gesso in cui mi ero serrata. Arriva il momento. Sono giunta al capolinea, è fatta un’anestesia epidurale, dopo pochi minuti metà del mio corpo si adagia lungo l’anomala condizione di paralisi. Sento gli arti addormentarsi, un calore ti avvolge come un serpente, tutto ha inizio, ed io non avverto nulla, seppur cosciente. Il professore si avvicina al mio viso, mi dà un pizzicotto sulla guancia e m’invita a essere positiva. Il viaggio continua, ritorno in reparto, e con mia enorme sorpresa sono presa in carico da due infermieri, che con classe devo dire, mi levano il camicie monouso e mi infilano la mia camicia da notte rosa cipria. Li guardo e non avverto alcun imbarazzo, sebbene il mio pudore sia messo a dura prova.
I giorni a venire, tralascio particolari dovuti ai dolori fisici, sono stati intensi, pieni d’incontri con donne incredibili, ognuna con le sue ansie, le sue grazie, la voglia profonda di uscire per riabbracciare i propri figli, il marito, con la stessa determinazione che solo le femmine sanno avere.
Le più singolari sono le pazienti sottoposte alla SLEVE, in altre parole la riduzione della dimensione dello stomaco, desiderose di ritrovarsi, di credere che tutto sia possibile, per sfilare dinanzi allo specchio di casa e tornare a sorridere. Ogni centimetro in eccesso del loro corpo è sinonimo di disagio, schiave di un corpo che non sentono come loro.
Il mio saluto finale va a loro, creature indomite che affrontano un percorso di rinascita difficile se non tortuoso, per vivere la grazia femminile a tutto tondo, dove di tondo non c’è più nulla.
Un sole novembrino mi accoglie, sono di ritorno verso casa, dove mi aspetta il nido in cui ritrovare me stessa, e ricucire le ferite di uno spazio di dolore che mi ha cambiato, forgiando la consapevolezza che il vivere è un’avventura colorata e imprevedibile, per questo meravigliosa.
Grazie a tutti.