Storia di Natale
Avevo circa otto anni, e come in ogni otto Dicembre, si andava per la città alla ricerca di un albero di Natale fresco e odoroso. Mia madre ha sempre tenuto molto agli addobbi natalizi, vi si accostava con lo spirito di una bambina, diversamente da mio padre. Il pino doveva essere anzitutto dritto e rigoglioso, perchè una volta addobbato con le relative luci e palle colorate; doveva essere posizionato accanto alla finestra del soggiorno, per fare invidia ai passanti.
Napoli a quel tempo era piena di venditori di pini; a un certo punto se ne trovava uno ogni duecento metri. Era mia madre che si interessava all’acquisto; una volta trovato l’albero adatto, lo si caricava sopra l’auto, con tanto di sacchetto avvolto intorno alle radici, per non disperdere il terreno lungo la strada. Ricordo le punture che mi procuravo quando aiutavo mio padre a trascinarlo in casa. Non sapevo mai dove mettere le mani, ma la bellezza di quel profumo fresco di pino, bastava a ricompensarmi dello sforzo. Dopo aver posizionato l’albero in un vaso adatto, si procedeva all’addobbo. Da questo momento in poi, lo spirito del Natale iniziava a impregnarsi ovunque. Allora tiravamo fuori dallo sgabuzzino, quei pacchi pieni di addobbi natalizi, sempre tutti con motivi e trame che ricordavano il natale, e già l’odore di muschio, dei pastori e di tutti quegli elementi che adornavano la casa, ci proiettavano in un altro mondo.
Io insieme a mio fratello e mia sorella, aiutavamo nostra madre a realizzare l’albero. Quanto impegno, quanta cura nei dettagli, e alla fine le palle decorative erano sempre le stesse: rosse e dorate, con un pennacchio d’argento sulla cima.
Ma una luce sfolgorante abbagliava i miei occhi, quando si scartava il presepe; rimasto stipato per un anno intero tra le robe da conservare. Era come se una parte di me, vivesse insieme a quei pastori. Ogni giorno, prima e dopo la scuola, mi avvicinavo al presepe e lo scrutavo da cima a fondo, soffermandomi sui pastori: sui loro volti che raccontavano un evento a cui stavano per assistere con animo curioso.
Foto di un comune presepe napoletano, simile al presepe che avevo in quel tempo
Tutte le case della città, brillavano meravigliosamente di notte attraverso le loro finestre, per gli alberi e per i presepi, che pure avevano le loro luci colorate. Napoli sembrava avere una doppia personalità: estiva, calorosa, quasi sudamericana nei periodi tra primavera e autunno, ma durante l’inverno, e nel periodo di Natale, diventava una Betlemme moderna: una Betlemme Napoletana.
Ogni negozio aveva al di sopra della sua insegna: una stella adornata di luci, che serviva come scenografia, insieme ad altre luminarie. Per i vicoli e le strade si respirava un profumo colorato, misto all’odore di legna che da qualche parte qualcuno bruciava per riscaldarsi. Il senso del Natale, si poteva afferrare con le mani, tanto era denso.
Allora io e i miei fratelli pensavamo ai regali che babbo natale doveva portarci, e realizzavamo bozze di lettere che consegnavamo ai nostri genitori, sempre disponibili, devo ammetterlo.
Ma ciò che amavo di più, era accompagnare mia madre durante la spesa per il cenone. Passavamo dinanzi a una quantità infinita di bancarelle colme di pesce fresco, olive e le famose papaccelle: una specialità in agrodolce, tutta Napoletana, e quei colori, quegli odori, mi inebriavano profondamente, portandomi anima e corpo nel paradiso del natale: così amo descriverlo.
Ci si recava spesso al Vomero, nostro luogo d’origine, e io bambino, sempre ricoperto da cappelli di lana e maglioni improbabili, ma che erano di moda negli anni ottanta; venivo trascinato da mia madre in lungo e in largo, facendomi spazio tra la marea di gente che affollava il luogo. Mi proponevo io di accompagnarla, proprio per sorbire tutta l’atmosfera che la mia città riusciva a darmi in quel periodo. La notte tra il ventitrè e il ventiquattro Dicembre, i pescivendoli restavano aperti tutta la notte: una tradizione ancora in uso. Potevi scendere in qualunque ora della notte, e trovavi bancarelle di pesce attrezzate con luci e coperture, con i pescivendoli protetti da coperte e da bevande calde, per scaldarsi. Tra le varie attrazioni del nostro Natale, c’è quella della novena, che più di un’attrazione è un culto. La novena viene recitata dal suono della zampogna. Oggigiorno non se ne vedono molti, ma fino alla fine degli anni novanta, le strade di Napoli brulicavano di zampognari. Ricordo ancora quando dalle nostre case sentivamo la melodia della zampogna, quindi sapevamo che da lì a qualche minuto, i zampognari avrebbero bussato alla nostra porta, per suonare la novena dinanzi al presepe. I zampognari davano inizio al periodo natalizio; quando si udiva la loro melodia in lontananza, era segno che il natale era alle porte.
La vigilia di Natale
Per noi Napoletani, è la vigilia il giorno più importante; paradossale vero? Eppure è così. La vigilia di Natale, è il giorno più importante per un Napoletano, perchè vi si concentra la famiglia, il senso religioso della festa, l’attesa dei regali da scartare, il buon cibo tradizionale da mangiare, e che per tutto l’anno era impensabile vedere. C’erano i giochi da tavola, che per noi Napoletani erano sempre la tombola, la scopa, o al massimo un sette e mezzo.
La sera della vigilia, avvertivo sempre un’aria densa di magia; mia madre iniziava nel tardo pomeriggio a preparare la tavola, sempre con una tovaglia rossa, poi tirava fuori i piatti e le stoviglie migliori, quelli che non vedevamo mai. Di solito la vigilia la trascorrevamo da noi, insieme agli zii e cugini materni, nonni annessi. Era un tripudio di persone, si respirava il calore e il profumo della famiglia. Osservavo con delizia i preparativi del cenone: mia madre e sua madre, vi si immergevano con profonda accuratezza. Il menù era il classico che si può trovare in ogni famiglia Napoletana: antipasto di pizze fritte con cavolfiori, ricotta e anche vuote. Spaghetti con vongole fresche e veraci. Baccalà fritto, rigorosamente in bianco. Capitone fritto, insalata di rinforzo: un misto di cavoli, acciughe, papaccelle, olive bianche, olive nere e giardiniera in agrodolce, quindi un misto di pesce fritto.
Insalata di rinforzo, con le papaccelle gialle e rosse
Dopo la cena era il turno delle ciocere, ossia della frutta secca: fichi secchi, mandorle, nocciole, datteri, prugne, noci, castagne del prete. Dopo ancora si passava a una valanga di dolci della tradizione natalizia Napoletana: roccocò, susamielli, struffoli, raffioli, cassatine, mostaccioli.
Noi bambini, dopo tutte queste leccornie, dovevamo recitare la poesia natalizia che le nostre maestre con tanta pazienza, ci avevano fatto imparare. I nostri parenti si apprestavano a sentirle con disponibilità, poi i nostri nonni e genitori, ci davano una lauta mancia, si trattava di una mille lire a testa. Non ho ancora detto che i regali che babbo natale depositava ai piedi del nostro albero, non erano ancora i regali che avevamo chiesto, ma bensì delle pietre. Nostra madre ci diceva questo, per non farceli aprire anzitempo: “diventeranno regali, alla mezzanotte della vigilia, quando li dovrete aprire”.
La meraviglia era pura nei nostri occhi, quando aprivamo quei regali. Non era il tempo degli smartphone, dei computers e dei supergiochi, ma ciò che avevamo era per noi di una certa importanza, perchè ci serviva per giocare, non per altro.
Non tutti andavano alla messa di mezzanotte, ma ci si recava in chiesa il giorno dopo, perchè dopotutto, il Natale è una festa liturgica.
Avevo otto anni, e la vigilia di Natale stava per finire. Le mie zie aiutavano mia madre a sparecchiare e a lavare i piatti, mentre noi bambini iniziavamo a prendere confidenza con i regali che il babbo ci aveva portato. Non avevamo occasione per dimenticare, poichè il Natale a Napoli si trascinava per giorni, fino all’Epifania. Questo programma andò avanti fino alla metà degli anni novanta, poi accadde qualcosa che iniziò a spegnere l’atmosfera del Natale: iniziammo a crescere.