Vi siete mai chiesti come facevano i nostri antenati di seimila e più anni fa a infilzare e smembrare gli animali per nutrirsi, a scarnificare la pelle di una pecora per farsi un vestito e, perché no, a tagliarsi barba e capelli quando era proprio necessario? Coltelli e lame non ce n’erano perché stiamo parlando di tempi che precedono la scoperta dei metalli. E dunque? Le pietre opportunamente scolpite e affilate, risponderà qualcuno dei più informati. Giusto, ma fra le tante pietre a disposizione ce n’era una sola che poteva diventare acuminata e tagliente con semplici operazioni di scheggiatura praticate da abili artigiani: l’ossidiana.
Pietra vulcanica per eccellenza, parente stretta delle lave, ma ma un po’ più viscosa e raffreddatasi tanto rapidamente da consolidarsi in forma di vetro. Pietra nera, ora brillante ora vellutata, qualche volta venata di bianco e d’oro. Pietra seducente che oltre agli impieghi pratici che la facevano diventare utensile da caccia o da taglio, era ricercata per le sue proprietà magiche. E quando poi, con l’avvento dei metalli, fu soppiantata da coltelli e punte di freccia in ferro e in bronzo, diventò materiale pregiato per oggetti ornamentali.
I fasti e gli avventurosi itinerari che l’ossidiana compiva per essere trasportata dai pochi affioramenti geologici a ridosso dei vulcani, fino alle centinaia di villaggi neolitici che ne facevano largo uso, sono raccontati e illustrati per la prima volta al pubblico dei non specialisti in una mostra che si inaugura domani alle 12.00 al Museo archeologico dei Campi Flegrei (Castello di Baia) per iniziativa di Lunaria A2 Onlus.
In una dozzina di pannelli sapientemente illustrati sono spiegate innanzitutto le proprietà fisiche e chimiche dell’ossidiana e come può un magma vomitato da una bocca vulcanica trasformarsi in un prodotto vitreo, riconoscibile per i suoi piani di frattura concoidi, cioè concavi o convessi.
E poi possiamo apprendere la geografia dei giacimenti di ossidiana largamente sfruttati nel bacino del Mediterraneo, la maggior parte dei quali concentrati in isole italiane: Sardegna, Pontine, Eolie e Pantelleria.
Ma per gli archeologi e i ricercatori di Scienze della Terra che studiano questo soggetto, il lascito più importante delle ossidiane è la loro tracciabilità.
“Qualunque frammento di utensile in ossidiana, grande o piccolo, noi troviamo sul terreno, esso, sottoposto ad opportune analisi, rivela l’impronta geochimica del giacimento di provenienza. E così è possibile ricostruire da quale apparato vulcanico esso ebbe origine, e quanta distanza ha compiuto la materia prima dalla sorgente fino all’area di lavorazione ed uso”, spiega Franco Foresta Martin geologo e divulgatore, impegnato in prima linea nelle ricerche sulle ossidiane.