Da quando, circa dieci anni fa, per motivi di salute fu costretto a non potersi più occupare della pseudo Grotta della Sibilla sul lago d’Averno, di don Carlo Santillo, meglio noto come “don Carlo il postino” o il “custode della Grotta della Sibilla”, più volte si era diffusa voce della sua scomparsa, successivamente poi smentita per la gioia di quanti lo conoscevano. Questa volta, purtroppo, la smentita non c’è stata: don Carlo ci ha lasciati nello scorso fine settimana alla veneranda età di 92 anni, dopo una lunga malattia. La sua dipartita rappresenta la fine di un pezzo di storia vivente di Pozzuoli e dei Campi Flegrei. Per onorarne la memoria ripropongo l’intervista che mi rilasciò nel 2004 per Il Bollettino Flegreo allora diretto dal professore Antonio Alosco. In quell’occasione don Carlo mi raccontò la storia della sua famiglia e in particolare come nacque la figura del Caronte della Grotta della Sibilla di cui lui era l’ultimo rappresentate.
Ancora oggi, a distanza di oltre cent’anni, sul lago d’Averno esiste una figura per tanti aspetti mitica che, nonostante la veneranda età, si prodiga con tutte le sue forze per proseguire una tradizione familiare ufficialmente iniziata verso la fine del XIX secolo. Stiamo parlando di Carlo Santillo, ACCOMPAGNATORE DELLA GROTTA DELLA SIBILLA IN LOCALITA’ AVERNO, come è segnato sul biglietto da visita dietro cui don Carlo ha fatto stampare il tracciato da percorrere in auto per raggiungere la grotta da Napoli via tangenziale.
Conobbi don Carlo un pomeriggio di giugno 2004 mentre passeggiavo intorno al lago godendomi la quiete del posto. Giunto all’altezza del viale che conduce alla grotta, la mia attenzione fu attratta da una comitiva di ragazzi che dal sentiero si riversava sulla via. Incuriosito mi incamminai sul viottolo ombrato da una fitta vegetazione. Percorso pochi metri, giunsi davanti alla spelonca. All’interno scorsi un uomo anziano spazzare con cura l’atrio illuminato dai riverberi di luce. Continuando a ramazzare, l’uomo volse su di me il viso magro adorno di occhialini attraverso cui scintillavano gli occhi sottilmente indagatori. Un berretto da caccia gli copriva il capo. Nonostante il caldo indossava un giubbetto di stoffa per proteggersi dall’umidità che ristagnava nella grotta.
“Buongiorno”, mi salutò accatastando al suolo un mucchio di sporcizia. “Volete visitare la grotta?”
“Sono solo e non voglio disturbarvi”.
“Nessun disturbo. Lasciatemi finire e vi accompagno.”
Zoppicando si avvicinò a una nicchia scavata nella roccia per prendere da una cassa di legno la paletta.
“Da poco è andata via una scolaresca, forse l’avete incrociata venendo” disse raccogliendo con fare certosino la spazzatura. “I turisti non hanno alcun rispetto, disseminano mozziconi e cartacce dappertutto. E a me tocca ogni volta ripulire perché la grotta sia presentabile”.
“La grotta è vostra?”.
“No. Io faccio solo l’accompagnatore. Venite!”
Lo seguii verso la parete interna del cunicolo dove era infissa una mensola con su poggiate delle lampade da campeggio. Ne accese una e me la porse. “Tenete, senza queste non si va da nessuna parte. State attento a non bruciarvi.” Ne accese un’altra per sé, prendendo anche quella spenta, aggiungendo: “Per emergenza, non si può mai sapere!”
Accompagnati da quell’incoraggiante viatico ci avviammo incontro al mistero. Man mano che avanzavamo nel buio alla luce delle torce, don Carlo mi parlò della grotta.
“Scoperta durante gli scavi archeologici promossi dai Borbone nel 1750 e successivamente nel 1792, la grotta è lunga duecentocinquanta metri ed è famosa per la sua discesa agli inferi, un budello scavato a gomito nella roccia che conduce a un corso d’acqua. In passato il fiumiciattolo si guadava trasportati sulle spalle di un moderno Caronte per visitare le stanze della Sibilla sull’altro versante oggi raggiungibile a piedi.”
“Chi era questo moderno Caronte?” chiedo incuriosito.
“Lo stesso accompagnatore! Fino al 1930, epoca in cui mio padre completò l’intero scavo del cunicolo, consentendo l’ingresso alle stanze direttamente a piedi, la grotta era lunga circa la metà, e per giungere lì dove si presume fosse la Sibilla bisognava attraversare il corso d’acqua sul fondo della cavità” dice fermandosi davanti a un cunicolo che si incunea nelle parete.“Vi faccio strada!”
Scendiamo fino a quando davanti a noi appare uno spettacolo fantastico. Illuminata dalle torce una vena d’acqua filtra nel fondo del cunicolo, svoltando in un’ansa che immette nelle stanze della Sibilla. Osservando il suggestivo scenario non mi stupisco che in passato si pensasse che quello fosse il passaggio agli inferi di cui parlano Omero e Virgilio nelle loro opere. “Una volta condotti fin qui i turisti, l’accompagnatore se li caricava a turno sulle spalle guadando il fiume per mostrare loro le stanze. Accompagnatori furono mio nonno, mio padre e tuttora io.”
Ascoltarlo raccontare della sua famiglia accompagnatori da tre generazioni; ammirare l’impegno con cui da solo accudisce la grotta a proprie spese, senza percepire il minimo contributo dalle autorità o da altri, mi induce a proporgli un’intervista per capire cosa lo spinge a fare tutto ciò.
Con don Carlo ci risentiamo telefonicamente dopo alcuni giorni e fissiamo l’appuntamento per le nove di sera davanti al sagrato della chiesa del Carmine a Pozzuoli. Nel chiarore dei neon distinguo l’inconfondibile figura di don Carlo venirmi incontro. Sul capo sgombro dal berretto risalta la rada schiera di capelli bianchi perfettamente ordinati. Indossa un elegante gilet porpora dalla trama arabescata. Mi saluta con simpatia. Sorridendo gli stringo la mano chiedendo se ha già cenato.
“No, ma non vi preoccupate, alla mia età si mangia poco.”
Insisto per offrirgli una pizza, alla fine accetta. In pizzeria mi presento al proprietario chiedendogli se nel locale c’è un posto dove possiamo parlare senza essere disturbati. Lui annuisce e ci guida nella sala interna ingombra di tavoli vuoti. Ci sediamo al desco l’uno di fronte all’altro. Traggo dalla borsa il registratore e lo sistemo sul tavolo. Don Carlo lo fissa spaventato. “Ma che fate, registrate?” si raddrizza sulla sedia. Non è la prima volta che intervisto qualcuno. Ogniqualvolta estraggo il registratore per non perdere nemmeno una parola di ciò che si dirà, tutti si allarmano!
“State tranquillo” lo rassicuro. Pigio il tasto di registrazione dando il via alla nostra storia.
“Don Carlo come nasce la figura dell’accompagnatore della Grotta della Sibilla dell’Averno, il cosiddetto moderno Caronte?”
“Il capostipite fu Del Giudice Lorenzo impiegato del genio civile di cui mio nonno Carlo sposò una delle sette figlie. Siamo intorno alla fine del milleottocento. Allora la strada che conduce da Lucrino all’Averno era ammantata di brecciolino e non asfaltata come oggi. Per agevolare l’afflusso delle carrozzelle con i turisti, Del Giudice e i suoi aiutanti, tra cui mio nonno, si adoperavano per tenerla sempre in ottimo stato, estirpando l’erba che cresceva ai lati, spianando e bagnando il terreno per evitare che al passaggio delle carrozze si levasse la polvere infastidendo i turisti. All’epoca il maggior afflusso di visitatori all’Averno e alla grotta era in autunno, in inverno e a Pasqua. Per fronteggiare la marea di gente il suocero di mio nonno allestì un gruppo di aiutanti per traghettare in spalla i turisti che volevano scendere negli inferi per visitare la stanza della Sibilla. D’estate invece i turisti diminuivano e da solo Del Giudice riusciva a fronteggiare le esigenze del pubblico per cui mio nonno, che tra l’altro era un valente pescatore, insieme agli amici se ne andava a La Spezia a pescare. Quando Del Giudice andò in pensione, non avendo figli maschi propose mio nonno al genio civile perché ne prendesse il posto. Inoltre gli cedette anche il ruolo di accompagnatore della grotta che di seguito occupò mio padre e quindi io. Approssimativamente sono centotrenta, centoquaranta anni che nella mia famiglia facciamo questo mestiere. Io iniziai nel 1946, dedicandomi a tempo pieno all’attività fino al 1960 quando mi impiegai nelle poste. Ma appena potevo aiutavo mio padre. Ho ripreso da quando sono andato in pensione nel gennaio del 1995.”
“Don Carlo cosa la spinge a proseguire quest’attività? La volontà di non infrangere la tradizione di famiglia, la passione, o..?”
“L’una e l’altra! Certamente non per interesse. Sono un pensionato e, a dire la verità, quel poco che guadagno accompagnando la gente lo spendo per far fronte a tutte le mascalzonate arrecate dagli sconosciuti alle infrastrutture della grotta. Più volte ho dovuto riparare il cancello d’entrata perché manomettevano la serratura per entrarvi. Addirittura alcuni anni fa realizzai un impiantino elettrico alimentato da accumulatori che rischiarava i cunicoli e le stanze. Durò quindici giorni poi scassarono tutto!”
“Don Carlo ma i lavori di manutenzioni li paga lei?”
“Si capisce! Li pago io di tasca mia fino all’ultimo soldo. Nessuno mi sostiene… Si rompe il muro? Chiamo il muratore e lo faccio riparare. Manomettono il cancello? Chiamo il fabbro e lo faccio aggiustare. La passerella che c’è nelle stanze marcisce? Chiamo il falegname e faccio sostituire le assi. Tutto a spese mie! Mai nessuno s’è degnato di ringraziarmi per tutto ciò! A parte ovviamente i visitatori i quali, chiedendomi ragguagli sulla grotta, come lei si sorprendono che faccia tutto da solo, finanche da spazzino pur di tenere il luogo in ottimo stato. Consideri che quando pulisco il vialetto d’accesso dal fogliame, durante il periodo invernale sono costretto a spazzare anche in mezzo alla strada per rendere transitabile il tratto che conduce alla grotta.”
“Ha mai pensato di cercarsi un aiutante?” suggerisco mentre don Carlo si versa da bere un bicchiere d’acqua minerale. Bevendo il suo sguardo attento e luminoso mi scruta al di sopra del bicchiere.
“Al giorno d’oggi non c’è tutta quell’affluenza di gente da giustificare la presenza di un aiutante “ dice posando il bicchiere sul tavolo. “Solo il lunedì dell’Angelo e il primo maggio mi ci vorrebbe effettivamente un po’ d’aiuto. Per il resto faccio da me!”
Il velato orgoglio, misto a una punta di ostinazione, che traspare dalle sue parole mi induce a credere che, considerandola un bene di famiglia, l’idea di condividere la grotta con qualcun altro non gli piace affatto. Se così fosse non lo si potrebbe biasimare ripensando alla fatica e al sudore versati dai suoi avi mentre negli anni trasportavano in spalla i turisti per garantire il pane ai propri figli. Fu proprio la paura che questo pane venisse improvvisamente a mancare che il padre di don Carlo, Alessandro Santillo, nel 1932, allorché Amedeo Maiuri scoprì l’attuale antro della Sibilla nell’acropoli di Cuma, si rivolse a Raimondo Annecchino affinché intervenisse perché l’archeologo non sconfessasse con la propria autorità la grotta dell’Averno.
“Dopo aver scoperto l’antro di Cuma, Maiuri si recò a visitare la grotta dell’Averno facendosi traghettare in spalla da mio padre” ricorda don Carlo. “A seguito di quella visita dichiarò che per anni la grotta era stata arbitrariamente definita grotta della Sibilla. Viceversa si trattava di uno dei tanti camminamenti militari di epoca romana scavati da Agrippa nel 37 a.c. quando bonificò il lago creandovi il Porto Julius durante la guerra civile tra Ottaviano e Pompeo, ingiungendo a mio padre di interrompere l’attività. Papà non si lasciò intimorire. Rispose che aveva famiglia per cui avrebbe smesso solo se Maiuri gli avesse trovato un lavoro. Quindi si rivolse a Raimondo Annecchino perché trovasse un compromesso. Annecchino, che oltre ad essere un signore era anche amico di Maiuri, si interessò della vicenda, chiedendo all’archeologo di non rimarcare troppo sull’infondatezza dell’originalità della grotta dell’Averno. Alla fine si trovò la soluzione decidendo di chiamare la grotta Bagno della Sibilla, ovvero luogo in cui la Sibilla veniva a bagnarsi. Io non affermo che la Sibilla stesse davvero in questo luogo. Dichiarare la grotta camminamento militare successivamente adibito a bagno termale mi sta bene. Però vorrei che gli organi competenti dessero maggiore importanza alla grotta e a tutta l’aria dell’Averno. Di questi luoghi ne parlano Omero, Virgilio. Uomini di cultura di tutte le epoche giungevano in questi posti per respirare il mito. Ma oggi dove sono i turisti? Qui intorno si vede solo gente che viene per mangiare o per fare all’amore… Perché gli studiosi, oltre ad affermare che la grotta è un camminamento militare, non dicono che tutto il luogo, per il suo valore storico, merita d’essere visitato? Perché non si adoperano affinché i turisti tornino in massa invece di tacere? L’esistenza della grotta è stata addirittura cancellata dalle carte topografiche. Fino a venti anni fa sulle guide c’era scritto Grotta della Sibilla, oggi troviamo segnato Grotta Romana. In tal modo la gente è depistata. Leggendo che l’antro della sibilla sta a Cuma questa non la viene a visitare perché di grotte romane qui ce ne sono tante.” Il tono accorato di don Carlo coinvolge emotivamente. Essendo mia intenzione dare risalto alla sua figura di Carlo di moderno Caronte, gli pongo una domanda che lo imbarazza.
“Don Carlo perché suppone che anticamente nella grotta si celebravano riti sacri?”
“Per sentito dire sembra che durante alcuni scavi effettuati in passato nei pressi della grotta furono rinvenuti un altare e delle statue di divinità risalenti a epoca preromana che furono subito occultati per evitare l’intervento della soprintendenza. Ma si tratta solo di voci che lasciano il tempo che trovano!”
Tralasciando i “per sentito dire”, i graffiti scavati sulle pareti della grotta che riproducono una spiga, simbolo di Demetra dea dei campi, e un fallo, simbolo dionisiaco, lasciano supporre che probabilmente nella grotta si celebrasse un culto ctonio legato alla terra, avvalorando la tesi di don Carlo. Uno degli aspetti più affascinanti che in passato resero famosa la figura dell’accompagnatore era il traghettamento a spalla dei turisti.
“Prima che installassi la passerella sul canale che collega l’ingresso agli inferi con le stanze, l’attraversamento del corso d’acqua si compiva sulle spalle dell’accompagnatore. All’epoca di mio nonno e mio padre l’auto era un lusso che poche famiglie potevano permettersi. I turisti giungevano nei Campi Flegrei con la cumana, il tram o la metropolitana. All’uscita dalle stazioni trovavano le carrozzelle che li accompagnavano a visitare i luoghi del mito virgiliano. Con i vetturini mio nonno e mio padre avevano stabilito un accordo che prevedeva per ogni turista che visitava la grotta, in base al prezzo stabilito per la visita, una percentuale che andava al vetturino. In questo modo l’andirivieni di turisti alla grotta era garantito così come era assicurato a mio nonno, mio padre e altri di mantenere le proprie famiglie in un epoca in cui non era facile sbarcare il lunario. Allora alla grotta provenivano carrozzelle da Baia, Napoli, Posillipo, dalla Riviera di Chiaia, Marigliano. Taxy da Napoli e da Pozzuoli; guide dalla solfatara con i loro gruppi di turisti. Considerate che a quei tempi alla solfatara c’erano ben quattordici guide mentre oggi ce ne sono solo due! All’epoca spesso fuori alla grotta si creava un’interminabile fila di visitatori. Oggi purtroppo la carrozzella è scomparsa. Ognuno ha la macchina, legge sulle guide della grotta di Cuma e si reca lì tralasciando questa dell’Averno.”
Riguardo alla sua figura di moderno Caronte, gli chiedo di raccontarmi qualche aneddoto curioso verificatosi nel corso di tutti questi lunghi anni in cui la sua famiglia ha svolto la funzione di accompagnatore.
“Di aneddoti da raccontare ne avrei diversi ma taccio per rispetto dei turisti. Quello che le posso dire è che mio nonno e mio padre hanno traghettato in spalla persone illustri come lo zar di Russia Nicola II, Re Gustavo di Svezia, donna Rachele Mussolini con il figlio Bruno, la contessa Pallavicini, la regina Elena di Savoia e la Principessa Maria José che mio padre portò in braccio perché era in stato interessante. In passato c’era l’abitudine da parte dei turisti di lasciare appuntato con un chiodo sulla sommità della grotta il proprio biglietto da visita cosicché si venisse facilmente a sapere delle persone importanti che l’avevano visitata. Ovviamente quando sopraggiungeva un’alta personalità lo si capiva subito perché era preceduta dalla staffetta che annunciava, sta arrivando sua maestà!. In quei momenti si allestiva tutto un preparativo per accoglierla degnamente. Ma questo succedeva all’epoca di mio nonno e di mio padre. Personalmente non mi risulta di aver accompagnato qualche pezzo grosso, anche perché oggi se qualcuno lasciasse un biglietto da visita presso la grotta per segnalare d’averla visitata, ‘sti mascalzoni non lascerebbero in pace nemmeno quelli!”
“Don Carlo possibile che non ha qualche aneddoto particolare da raccontare che riguardi lei o suoi avi?” insisto sperando di fare breccia nella sua dura scorza da galantuomo. Per un attimo leva gli occhi al soffitto segno che sta setacciando nei ricordi.
“Oddio, un fatto che mi ha molto colpito riguardò mio nonno” ammette tornando a fissarmi inarcando la fronte, sistemandosi gli occhialini sul naso. “Durante la visita di un gruppo di turisti facoltosi uno di loro perse un gioiello molto prezioso. Quando ritornò alla grotta per vedere se l’avesse perso lì, mio nonno glielo consegnò dicendo, qui l’avete perso e qui sta! Personalmente un episodio che non dimenticherò mai fu la visita di un turista che, prima di venire alla grotta, era stato alla solfatara. Appena mi vide la prima cosa che mi chiese fu il costo dell’accompagnamento. Io risposi che era a suo piacere e lui si innervosì, asserendo che era stanco di quest’atteggiamento dei napoletani. Incuriosito chiesi perché ce l’avesse tanto con i napoletani. Mi spiegò che alla Solfatara, dopo aver pagato centocinquanta lire per l’ingresso, aveva dovuto sborsare quattrocento lire per la guida altrimenti non poteva visitare il vulcano in quanto farlo da soli era proibito. Quindi aveva dovuto pagare altre duecento lire per delle fiaccole di pino utilizzate dalle guide per accrescere il fumo in alcuni punti del vulcano, più ancora altre duecentocinquanta lire per l’acquisto di alcune pietre che gli aveva venduto un tizio che allestiva una specie di scenografia all’interno di una grotta. In più, a conclusione della visita, la guida gli aveva chiesto di offrirgli un bicchiere di vino per brindare alla sua salute. Insomma la visita alla Solfatara gli era costata più di mille lire. Come non giustificare la sua arrabbiatura? A quel punto dissi, a Napoli diciamo che i patti li fanno i cocchieri e gli chiesi poche centinaia di lire. Bene, alla fine il signore restò talmente soddisfatto che non ricordo se mi diede cinquecento o cinquemila lire. Ma rammento che mentre fissavo il danaro nella mano ero così confuso che gli chiesi se fosse certo di quel che mi aveva dato. Eccome se sono certo, lei è un galantuomo!, ribatté lui soddisfatto.”
Nei racconti di don Carlo compare un elemento comune rappresentato dall’onestà! Glielo faccio notare e lui rafforza il concetto narrando un episodio emblematico.
“Tenga presente che l’accompagnatore deve scortare persone sole nel buio. Ora immaginatevi quando si compiva l’attraversamento a spalla e si traghettava una bella donna… Il moderno Caronte con una mano reggeva la torcia e con l’altra le gambe della turista. Ma ‘sta mano tanto poteva metterla all’altezza delle caviglie e tanto un po’ più sopra accarezzando le cosce della signora!”
“C’è stato chi l’ha fatto?”
“Ci fu chi si lamentò con mio padre, ma non perché compì lui l’audace gesto. Un giorno che c’erano tante persone da accompagnare e traghettare, papà chiese aiuto a un conoscente il quale ne approfittò per palpeggiare le gambe di una signora. All’uscita la visitatrice si lamentò col cocchiere il quale ammonì mio padre di non servirsi più di quella persona perché non si era comportata da galantuomo!”
“Don Carlo anche lei ha traghettato gente in spalla”
“No!” risponde deciso. “Non l’ho mai fatto e non mi sarebbe piaciuto farlo. Anzi criticavo mio padre perché, facendolo, si rovinò la salute. Oddio, papà è vissuto fino a novantatre anni ma di acciacchi ne aveva tanti tra artrosi e reumatismi. Mio padre faceva l’accompagnatore da che era bambino. Per oltre trenta anni ha traghettato la gente in spalla nell’acqua caricandosi in groppa persone che pesavano fino a centoventi chili. E vi assicuro che non aveva un fisico erculeo, anzi… Vi immaginate che vita ha fatto? Il cardiologo che lo conosceva, quando mi incontrava, mi chiedeva sempre, ma papà è ancora vivo? Deve essere figlio del padreterno per continuare a campare dopo quella vitaccia!
Da oltre un’ora pendo dalle labbra di quest’uomo così semplice e umile da non rendersi conto d’essere un vivo fotogramma di storia! Di tanto in tanto l’aroma della pizza si spande nella sala stuzzicando il palato. Sarei tentato di chiudere l’intervista per soddisfare la gola ma tengo a bada lo stomaco ancora per un po’ e pongo un’ulteriore domanda a don Carlo.
“Da qui a cent’anni, quando lei non ci sarà più scomparirà anche la figura dell’accompagnatore, o c’è qualcuno che prenderà il suo posto?”
“Chissà” sorride facendo spallucce. “Al momento non c’è nessuno a cui cedere il timone. Per farlo dovrei trovare una persona che intraprenda il mestiere non per lucro. Glielo ho detto, per fare l’accompagnatore prima di tutto bisogna essere galantuomini!”
“Don Carlo un’ultima domanda.”
“Dica” fa rilassandosi.
“Quali sono le sue speranze per il futuro della grotta?” Prima di rispondere si aggiusta gli occhiali sul naso.
“Ho 74 anni e soffro di artrosi all’anca, un ricordo della grotta. Tuttavia se non avessi questo fastidio mi adopererei come un giovanotto perché si desse più considerazione a tutta la località dell’Averno, non solo alla grotta. Ho sempre sognato di vedere l’Averno curato come si conviene; senza un filo d’erba lungo la strada. Magari creare una pista ciclabile; istituire un trenino che colleghi l’Averno con il lago di Lucrino; ripristinare d’estate un servizio di carrozzelle per i turisti. Impiantare lungo il lago dei fari che illuminino in maniera caratteristica e suggestiva la zona; sistemare lungo il percorso delle panchine, delle piante ornamentali e delle fontanelle. Ma si tratta solo di speranze, di sogni!”
“Don Carlo a volte i sogni si avverano”
“Speriamo!” sorride.