Grazie al suggerimento di un amico runner, su Amazon Prime ho visto Brittany Non Si Ferma Più.
Il film narra la storia vera di Brittany, una ventenne single americana afflitta da una serie di problemi tra cui essere in sovrappeso. Pur di non sentirsi diversa dalle coetanee, fidanzate e con una regolare vita sessuale, Brittany non si fa scrupoli di concedersi avventure estemporanee con assoluti sconosciuti nei bagni dei locali dove la sera si ritrova con le amiche pur di sentirsi come loro. Tuttavia ciò le fa provare vergogna verso se stessa tanto che, quando rientra a casa, è costretta a vomitare.
Alla fine, stanca di sentirsi compatita dagli amici e usata dagli uomini, fissando allo specchio la propria immagine grassa, decide che è giunto il momento di dare una svolta alla sua vita.
Su indicazioni del nutrizionista e stimolata dalla vicina di casa amante della corsa, Brittany, seppure con scetticismo, si avvicina al mondo dei runner.
All’inizio correre senza interruzioni per 1,5 km per lei rappresenta un’impresa epica. Riuscendovi, ci prende gusto e inizia a macinare sempre più chilometri. Fino a che la corsa si trasforma in ragione di vita, facendole maturare la decisione di correre la maratona di New York.
È inutile dire che alla fine ci riuscirà, ma quel che più importa è come. La corsa simboleggia il mezzo a sua disposizione per mettersi in gioco con se stessa; misurando non solo le proprie capacità fisiche ma, soprattutto, quelle mentali: nella vita ognuno di noi è l’espressione del pensiero che coltiva con fermezza per il raggiungimento di un obiettivo.
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Al momento di maratone ne ho corse tre: Napoli e Firenze nel 2014; Roma nel 2015. Poche rispetto a chi ne ha corse una ventina se non di più. Tante per chi come me si è avvicinato all’agonismo da pochi anni, intendendo per anni lo sport come mezzo per rilassarsi e pretesto per fare caciara con gli amici.
Mentre seguivo il film, non ho potuto fare a meno di riandare con la mente alla mia prima maratona corsa a Napoli il 16 febbraio del 2014.
Pur correndo da che ero ragazzo e avendo partecipato ad alcune gare di 10 e 21 km, per circa cinque anni dovetti limitare la mia attività sportiva a brevi sgambate mattutine sul lungomare di Pozzuoli, in quanto impegnato con mia sorella nella cura di papà ammalato di Alzheimer.
Solo quando papà si spense ripresi ad allenarmi con continuità, lasciandomi convincere da un gruppo di amici runners a iscrivermi alla Pozzuoli Marathon.
Ascoltandoli raccontare con entusiasmo e con orgoglio delle gare cui fino e allora avevano partecipato, in particolare delle emozioni che provavano ogni volta che partecipavano a una maratona, mi chiedevo se un giorno anch’io avrei avuto modo di vivere una simile “avventura”!
È proprio vero, l’unione fa la forza!
Correndo con loro la domenica mattina, senza accorgermene, iniziai a macinare chilometri su chilometri, superando la soglia dei venti chilometri.
Il primo passo di avvicinamento alla maratona fu la Napoli-Pompei del 2012, circa 28 km.
Confesso che all’epoca l’idea di poter correre per così tanti chilometri mi sembrava un’avventura equiparabile a una maratona. Mi sbagliavo!
Un amico runner dal nutrito palmares, tra cui diverse maratone sparse nel mondo incluse un paio di New York, mi spiegò: “Un conto è correre trenta chilometri, un altro correrne quarantadue! Il fisico umano è predisposto per correre circa trentaquattro chilometri. Superata questa soglia, nell’organismo avvengono delle reazioni che scompensano tutti i valori fisiologici. Perché si normalizzino devono passare quattro/cinque mesi. Per questo non si dovrebbero correre più di due maratone all’anno.”
Fatto sta, con mia grande soddisfazione conclusi la Napoli-Pompei sotto le tre ore.
Sulle ali dell’entusiasmo, per oltre un anno continuai ad allenarmi con continuità e a gareggiare.
Altra tappa di avvicinamento alla maratona fu la Coast to Coast/Sorrento-Amalfi di 32 km, a metà dicembre del 2013. Oltre a terminarla senza affanni particolari, il risultato cronometrico fu di tutto rispetto – 3h:03’:15”, a una media di 5’:33” a km. Ma soprattutto, nell’attimo in cui tagliai il traguardo con il sorriso sulle labbra, acquisii la certezza che sia nelle gambe sia nella testa ero pronto per affrontare la Grande Avventura.
Fu così che, non appena rientrai a casa, mi iscrissi alla maratona di Napoli che si sarebbe svolta due mesi dopo.
Durante quell’arco di tempo mi allenai con lo scopo di incamerare nelle gambe quanti più chilometri potessi, arrivando a fare due lunghi di 34 e di 32 chilometri a poche settimane dalla partenza.
Ovviamente, oltre ad allenarmi, dovetti seguire un regime alimentare alquanto ferreo.
Pur essendo una buona forchetta, in quei giorni cercai di praticare quella che suole dirsi un’alimentazione sana ed equilibrata. Bilanciando carboidrati e proteine; limitando zuccheri e grassi. Abolendo vino e liquori, per quanto non fossi un assiduo bevitore.
Questo sacrificio alimentare si irrigidì nelle ultime due settimane dalla gara.
Lo confesso, quel periodo fu una sofferenza! Non solo per me, ma anche per mia moglie la quale, poverina, fu costretta a cucinare in maniera diversificata per soddisfare le mie esigenze nutritive.
A pochi giorni dalla partenza Lello, uno dei decani dei runner puteolani – già all’epoca vantava oltre una decina di maratone completate – mi disse: “Quando correrai non pensare al tempo. Non importa se per finirla ci impiegherai cinque ore. Quel che importa è che tu la chiuda. Solo così realizzerai di poter correre senza problemi per oltre quaranta chilometri. Alla successiva maratona penserai al cronometro, ora devi solo preoccuparti di tagliare il traguardo!”.
Le cose andarono esattamente come disse lui! Non solo la chiusi in meno di cinque ore – per la precisione 4h:43’:16” – ma, quando a fine novembre di quello stesso anno partecipai alla maratona di Firenze, la terminai in 4 ore e mezza. Avrei sicuramente potuto fare meglio se non avessi adottato una strategia scriteriata, contravvenendo alle indicazioni dell’amico che per mesi mi aveva allenato con abnegazione e fiducia : “Per i primi trentacinque chilometri, contieniti, anche se senti che le gambe vanno. Dopo, se ce l’hai, parti!”.
Feci l’esatto contrario e pagai lo scotto. Corsi i primi trenta chilometri a una media di 5’:30” a km. Gli “ultimi” 12 km poco al di sopra degli 8’ con la reiterata tentazione di ritirarmi.
Tuttavia raggiunsi due dei tre obiettivi che mi ero prefissato: 1) chiuderla; 2) possibilmente con un risultato migliore di Napoli. Purtroppo non al di sotto delle 4 ore e quindici!
La terza maratona, quella di Roma, si svolse a fine marzo del 2015. La chiusi con lo stesso tempo di Firenze. Ma questa volta il risultato cronometrico non fu condizionato da un’errata “strategia” di gara, bensì dall’aver tenuto fede all’impegno preso con un amico che correva la sua prima maratona con il quale ci eravamo allenati insieme: gli avevo promesso che lo avrei “accompagnato” per i primi trenta chilometri.
Seppure in più di un’occasione fui tentato di staccarlo, mantenni la parola data.
Non mi pentirò mai di quella scelta: la gioia che trasparì dalla sua voce quando mi chiamò sul cellulare per ringraziarmi subito dopo l’arrivo, e la felicità con cui mi abbracciò quando ci vedemmo, non li dimenticherò mai!
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Da oltre un anno non si gareggia a causa Covid. Quando passerà la bufera, spero di riuscire a ritrovare gli stimoli giusti per prepararmi per la mia quarta maratona.
Nel film c’è un dialogo quanto mai indicativo che credo chiunque abbia corso una maratona avrà colto o coglierà: all’amico che le confessa la propria decisione di partecipare alla maratona di New York, Brittany chiede: “Speri di vincere?”. Lui risponde secco: “Spero di chiuderla!”
Per quello stesso “motivo” lei stessa si sottoporrà a sua volta a un anno di sacrifici fino allora impensabili. Incluso l’accettare lavori che mai avrebbe preso in considerazione, pur di racimolare i soldi per l’iscrizione alla gara.
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Per disputare una maratona, prepararla e completarla occorrono disciplina e spirito di sacrificio.
Forse è questo il motivo per cui nei cv lavorativi fa peso segnalare di aver portato a termine una maratona: l’averla disputata e chiusa sottintende che il candidato non ha paura di mettersi in discussione, che è una persona capace di affrontare i sacrifici per il raggiungimento di un obiettivo e dunque una potenziale risorsa per l’azienda.
La maratona non è una gara, è una metafora esistenziale, la cartina di tornasole attraverso cui individuare il valore di un individuo, quanto sia pronto a lottare per la realizzazione dei propri sogni.
Ogni maratona completata è una storia a sé. Ma la prima maratona non si scorda mai perché solo lì si è in competizione contro se stessi; ci si confronta con i propri limiti fisici e mentali, con le proprie fragilità interiori.
La prima maratona è una svolta di vita. Se si riesce a chiuderla si è compiuto un passo importantissimo di cui probabilmente non si avrà coscienza fino a quando un film, un libro o un articolo non stimoleranno la riflessione!