Lunedì è l’otto marzo e come ogni anno si “festeggia” la donna.
Ma, sarà il clima di chiusura del Covid19, saranno le notizie dei continui femminicidi che si leggono sui notiziari come fossero un bollettino di guerra, credo non ci sia proprio nulla da festeggiare.
Per non fare la “Guastafeste“, scrivo oggi con 5 giorni di anticipo, per raccontare, a chi non la conosce, e ricordare, a chi l’ha dimenticata, una storia recente, un altro tipo di violenza, parlo degli istituti psichiatrici (I manicomi).
Oggi i manicomi sono chiusi, ma per molto tempo sono stati stati utilizzati per eliminare dalla società gli “errori”, le anomalie.
Sono stati istituiti in Italia a partire dal XV secolo voluti dalle amministrazioni provinciali o da medici illustri e nel 1700 anche su richiesta di alcuni ordini monastici.
Nel XIX secolo a causa del crescente numero dei malati si iniziò a discutere di una legge che potesse regolare tutti i manicomi del Paese che fino a quel momento avevano avuto piena autonomia per quanto riguarda l’internamento.
Ma un vero regolamento per i manicomi si ebbe per la prima volta nel 1904 con la Legge Giolitti che citava:
“Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose per sé o per gli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorchè nei manicomi”.
“Per sé e per gli altri“, ma non fu proprio così, infatti, non essendo previsti limiti di età, questi istituti furono utilizzati anche per risolvere il problema di dove collocare molti bambini orfani.
In breve i manicomi divennero uno snodo importante della rete istituzionale tesa a raccogliere i minori che in mancanza di un adeguato sostegno famigliare dovevano essere nutriti, educati, custoditi, corretti, puniti o curati.
Quando un bambino, spesso ospitato in un brefotrofio o presso uno dei tanti istituti per l’infanzia abbandonata e bisognosa, costituiva un problema a causa delle sue esigenze assistenziali o del disturbo arrecato dal suo comportamento, una delle possibili soluzioni era il ricovero in manicomio. Quando un bambino presentava un deficit mentale, l’allontanamento dalla famiglia ed il ricovero presso un istituto facevano parte dei consigli che anche il pediatra suggeriva ai genitori.
La “femminilità” rinchiusa.
Ma l’internamento è un fenomeno che ha riguardato soprattutto gli adulti assumendo caratteristiche profondamente diverse per i due sessi.
Differente era il sapere psichiatrico sulla follia degli uomini e delle donne soprattutto durante il grande internamento che si verificò tra i secoli XIX e XX, dove i ricoveri femminili erano legati ai rapporti di potere tra i generi e a come tali rapporti erano vissuti dalle donne.
Il pensiero medico di questi secoli era fortemente influenzato dalle idee lombrosiane che tendevano a dimostrare l’inferiorità biologica, mentale e sociale della donna rispetto all’uomo:
“per la costituzionale debolezza psico-nervosa nelle funzioni più elevate, e per l’instabile temperamento, è forse la donna, a parità di condizioni, più dell’uomo volta ad impazzire”.
La psichiatria di fine Ottocento arricchì con argomenti scientifici, caratterizzati da una presunzione di certezza, la rappresentazione del femminile comune all’epoca: folli, pazze, isteriche, erano, allora, prima di tutto le donne che attraverso la propria malattia, esprimevano una trasgressione ai valori “naturali” del genere femminile.
Le donne non avevano, per gli psichiatri del tempo, gli strumenti per “essere” nel mondo in rapida trasformazione di fine Ottocento.
Motivi per essere internati erano tanti per le donne, in particolare durante il fascismo quando in manicomio finiva quella che veniva definita la “malacarne“, composta da quelle donne che si discostavano dall’ideale fascista della sposa e madre esemplare e che con le loro condotte intemperanti rischiavano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello Stato.
I motivi per essere internati erano tanti, essere indifese, libertine, vittime di un abuso sessuale, poco propense al ruolo di moglie o madre o avere osato ribellarsi alle violenze inflitte dal marito nella propria casa.
Loquace, euforica, lasciva, smorfiosa, impertinente, piacente… questi erano gli aggettivi atti a descrivere la sintomatologia delle donne che venivano rinchiuse nei manicomi.
“Tu sei pazza“. Quante volte le donne si sono sentite dire, violentemente, durante un litigio o anche solo una discussione questa frase. (Questo, purtroppo avviene ancora oggi).
Alla fine della seconda Guerra mondiale la situazione non migliorò. In manicomio venivano “ricoverate” donne sane ma con un temperamento ribelle, protagoniste di liti in famiglia o con vicini di casa, oppure non accettavano la disciplina familiare o, peggio ancora, avevano intrecciato avventure amorose con uno o più giovanotti.
La legge Mariotti del 1968, finalmente, rese meno inaccettabili le condizioni dei ricoverati in ospedale psichiatrico, e, infine, la cosiddetta legge Basaglia del 1978 abolì i manicomi, eliminando il concetto di pericolosità per sé e per gli altri del malato di mente e collocando l’assistenza psichiatrica nel contesto dei normali servizi ospedalieri e ambulatoriali.
Prima della Riforma Basaglia lo scopo dei manicomi era proteggere la società dai malati di mente, erano i “custodi” di questi nemici, devianti, con comportamenti anomali.
La legge che precedeva questa riforma considerava i malati come dei carcerati e soprattutto inguaribili.
Prima del 1978 moltissime donne sono state internate per volontà di un marito perché non erano brave massaie o avevano osato sottrarsi alle violenze inflitte in casa. Oggi quelle donne, per le stesse motivazioni finiscono uccise per mano dell’uomo che un tempo le ha amate.
Alda Merini
La poetessa e scrittrice Alda Merini, nella sua eccellente produzione letteraria racconta l’esperienza dell’ospedale psichiatrico toccata a lei, di quando l’indicibile tormento dell’ospedale psichiatrico abbia influito sulla sua esistenza.
Le orribili torture subite, fu legata mani e piedi al letto come punizione per la propria insonnia, subì elettroshock senza anestesia per aver risposto male a un’infermiera, visse l’umiliazione, lei che era tanto pudica, di doversi spogliare davanti a tutti per essere lavata con l’acqua fredda.
Affrontò questo trattamento, degno di un lager, con coraggio e soprattutto senza mai rinunciare alla speranza di essere felice, tanto che nel manicomio trovò anche l’amore: un paziente chiamato Pierre, che però in seguito fu trasferito in un altro istituto proprio a causa della sua passione per la poetessa.
All’uscita dal manicomio, Alda Merini seppe trasformare l’orrore in poesia, dando voce al dolore di tanti uomini e donne la cui sofferenza non verrà dimenticata grazie ai suoi stupendi versi.
Nonostante tutto ha amato molto la sua vita, l’ha amata godendo di tutto ciò che ha potuto offrirle e donarle, anche le privazioni, che l’hanno resa quello che è stata. Una grandissima poetessa visionaria.
Dice la poetessa: Ho spesso fatto caso alla sofferenza trasformata in forza creatrice. L’altra faccia, quella buona, di una brutta medaglia.
“Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto
di quello che vanno dicendo sul manicomio.
Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita
e la vita è spesso un inferno…
per me la vita è stata bella
perché l’ho pagata cara”
Questo è il merito di un’artista che ha sperimentato tutto della vita: il dolore, la miseria e la perdita, ma anche l’amore e infine il riconoscimento per una produzione letteraria indimenticabile[1].
Nel link proponiamo la registrazione di: Storie di donne raccontate da Michela Ponzani nella puntata Cose da matti della trasmissione di Rai Storia Clio. Il filo della Storia del 13 maggio 2018.
[1] Dalla biografia di Alda Merini https://www.tuobiografo.it/post/2019/10/02/-altra-verit%C3%A0-diario-di-una-diversa-autobiografia-alda-merini.