Mettere a nudo la propria vita familiare cercando di descrivere uno spaccato del Belpaese, è un atto di estremo coraggio. Davide D’Urso, scrittore, libraio, punto di riferimento per coloro che amano la lettura, ha sapientemente descritto l’atmosfera, le contraddizioni e le speranze, degli uomini e delle donne che riempirono lo spazio sociale dagli anni ’60 in poi. I quarant’anni che Davide percorre spingono l’acceleratore verso l’autostrada dell’ambizione, quella cieca smania che si impadronì della gioventù squattrinata e rapace del periodo. Gli episodi narrati aprono uno squarcio profondo in cui si alternano svariati personaggi, che fanno capo all’intrepido, geniale quanto incosciente figura del proprio padre, Pasquale. Come un Don Chisciotte dei nostri tempi, attraversando traversie di ogni genere, l’uomo riesce a costruirsi un futuro dignitoso, sorpassando il limite dettato dall’ignoranza, mettendosi in gioco fino a raggiungere un livello culturale dignitoso, entrando però in una sottile competizione con suo figlio. Quest’ultimo preso dal possesso della perpetua lotta generazionale cerca con tutte le sue forze di contrastarlo, di non somigliargli, compie un volo pindarico, opponendo le forze centrifughe del progresso intellettuale, di cui aveva beneficiato per buona parte della gioventù, per dichiarare il proprio dissenso. Quella lotta intestina avrà il merito di elaborare un insegnamento, grazie al quale Davide raccoglierà gli esempi paterni, per rielaborare il proprio futuro, rileggere sotto forma nuova i principi e destinarli alla crescita personale.
Il romanzo è suddiviso in piccoli frame, che seguendo un ordine cronologico, tracciano l’evoluzione della famiglia di origine, intervallati da citazioni letterarie che ne annunciano il contenuto. Piccolo stratagemma linguistico è nelle parole che in lettera maiuscola fungono da capoverso ad ogni paragrafo, fissando il tema centrale della narrazione.
Tra l’ironico e il racconto impegnato Davide D’Urso segue l’evoluzione di uno spaccato della società meridionale, dove regna l’illusione del cambiamento, in cui l’orizzonte ambiguo, colorato da nuove forze criminali, stava costruendo il prossimo futuro.
La linea di scrittura adoperata segue un ritmo ben equilibrato e utilizza espressioni in dialetto incastonate nel quadro linguistico reggente, con chiara e costruttiva abilità.
Passiamo al titolo “I Famelici”: le connotazioni del termine conducono il lettore verso un tipo di approccio umano sanguigno, vorace, spregiudicato nell’assaporare le variabili che la vita vi impone nel superare. Ma in realtà il nodo comune di quella generazione sta nell’inguaribile, quanto seducente desiderio, di emergere dalla melma fangosa della povertà, di affermarsi in una società inglobata in un ritmo frenetico dettato dall’esplosione industriale, un vortice indemoniato che suscita un malefico desiderio chiamato: agiatezza.
Nelle fauci del mostro molte famiglie del periodo furono inevitabilmente fagocitate, altre investirono ogni risorsa possibile, pur di acquistare le famose “pietre”, che come lapidi eterne, concedessero l’ascesa verso l’Olimpo dei vincitori. Peccato che il risvolto della medaglia presenterà un conto salato, reso duttile solo grazie a uomini, che come l’autore si sono messi in discussione, e hanno cercato, loro malgrado, di porre l’accento sugli investimenti giusti, sulle pratiche buone, come quella di amare profondamente la cultura, e in particolar modo la letteratura.