Dopo l’esperienza al nord tra Piemonte e Liguria, lo chef Carlo Coscione ritorna a sud nella sua Procida. E dal ristorante Albatros al porto dell’isola flegrea propone piatti di mare nel rispetto della tradzioni e anche della ricerca di gusti innovativi.
Come è nata la sua passione per la cucina?
“Credo come me tanti chef hanno iniziato così, ricordo le domeniche mattina quando non c’era scuola e cucinavo con la mia mamma. Senza alcun dubbio tutto è iniziato da quelle domeniche e ancora oggi le ricordo con molta gioia, la stessa che ho quando iniziò ad accendere i fornelli”.
Ci racconti l’esperienza più significativa?
“Le esperienze sono tutte significative, siamo alla continua ricerca di idee, progetti, ingredienti nuovi. Per formarsi e crescere bisogna fare esperienze e da ognuno di queste, bisogna tirare fuori concetti di cui farne tesoro”.
Diventare chef, un sogno realizzato?
“Certamente un sogno realizzato senza dubbio, anche se avrei voluto fare di più, ma non mi fermo e posso ancora riuscirci”.
Cosa significa essere oggi uno chef?
“Un tempo avrei risposto colui che cucina e gestisce una brigata”.
Oggi le cose sono molto cambiate…
“Mi piace riportare ciò che ha detto lo chef Marco Pierre White: siamo casalinghe con la barba, pirati senza barca e senza bussola, siamo lunatici, starni, sovrappensiero perennemente, insicuri nelle nostre sicurezze, perennemente in esame con le nostre certezze e costantemente giudicati dal tribunale del gusto”.
Hai mai pensato a conquistare una stella Michelin?
“No, non ci ho mai pensato, sono concentrato a fare ciò che amo, cucinare. Anche se per chi ce l’ha e un riconoscimento straordinario, una ricompensa per i sacrifici fatti”.
Lei cosa chiede al personale di sala?
“Al personale di sala chiedo di dare lo stesso impegno e dedizione come facciamo noi in cucina”.
Ci spiega cosa c’è dietro la cucina?
“Ore e ore di lavoro, ricerca, il contatto diretto e costante con i fornitori, il confronto con la brigata, mettere su un menu che può variare anche tutti i giorni, calcolare i costi di quel piatto, ma soprattutto c’è il poco tempo che dedichiamo alla famiglia”.
Cosa ne pensa del binomio cucina, cultura del territorio?
“E ciò che dobbiamo tenere sempre bene in mente, la nostra bussola. In Italia abbiamo grandi piatti e ne continuiamo a creare e a proporre, proprio grazie alla nostra storia e cultura del territorio e del cibo. Penso anche che deve essere alla base di uno chef”.
Cosa propone a cena stasera?
“Le posso rispondere dopo le 15. Quando, come tutti i giorni fanno rientro in porto le paranze circondate da gabbiani festosi, in attesa che i pescatori gettino in mare il pesce che si è sciupato e non più vendibile e scaricano il pescato vivo e ci tengo a sottolineare “vivo”, perché c’è differenza tra pesce fresco e pesce vivo come sostengo e come dice sempre il mio caro amico Giovanni”.
A quale piatto e più affezionato?
“Sono molto legato alla pasta, in particolare agli spaghetti. Uno che veramente ho a cuore è uno spaghetto al ragù bianco di crostacei di paranza. Non perché nasce una mia idea, ma per il fatto che viene utilizzata tutta materia prima del territorio. Viene preparato con mazzancolle, gamberi bianchi, canocchie, tutto già sgusciato. Un’autentica esplosione di gusto, ed ogni volta che mangerai crostacei, ti verrà in mente Procida”.
Nella presentazione di un piatto si elencano gli ingredienti e si è toccato dai cinque sensi, ma vorremmo conoscerne l’anima…
“L’anima di un piatto la conosce lo chef. Partendo dall’acquisto della materia prima, dall’idea o intuizione se ci va o meno un abbinamento con questa o quella verdura o spezia. Quando vedi un calamaro di lenza, piuttosto che una spigola pescata ad amo, l’anima si rigenera, il successo sta poi trasmetterlo al cliente nel momento che osserva e gusta il piatto”.