Lavora al mercato ittico di Pozzuoli da quando era ragazzino, prima alle dipendenze di una delle famiglie più attive nel settore, gli Avallone, poi con un proprio banco vendita, che negli anni si è guadagnato una clientela affezionata. Nonostante l’aspetto giovanile, Pietro Temante, da tutti conosciuto come Pierino, classe 1965, appartiene a una generazione di pescivendoli che ha ormai 40 anni di esperienza alle spalle. Oltre ad arricchire il quadro già emerso dalle interviste a Giuseppina Maddaluno, Francesco Coppola e Procolo Petrungaro, il suo racconto contiene anche aneddoti ed episodi curiosi, tipici della cultura popolare, in cui entrano elementi ai limiti del fiabesco.
Quando e come hai iniziato a fare il pescivendolo?
La colpa è tutta di mia sorella (ride)! Perché ho iniziato a lavorare con mio cognato, Salvatore d’Isanto, allora suo fidanzato. Frequentavo ancora la seconda media, ma quel lavoro già mi piaceva. Il guadagno era notevole: negli anni ’80 potevo permettermi tutti capi firmati e ricordo che quando si usciva i miei amici venivano a vestirsi a casa mia, con abiti miei. La scuola l’ho poi conclusa con un corso serale. Mia mamma non era contenta perché voleva che studiassi, anzi era preoccupata che io guadagnassi così tanto per la mia età.
Hai sempre lavorato con tuo cognato?
No. Dopo una breve esperienza con alcuni amici, accettai la proposta di lavorare con Antonio Avallone, conosciuto come Strigariello, e i suoi fratelli. Per circa vent’anni sono stato alle loro dipendenze, mi occupavo della vendita. Godevo della loro piena fiducia perché conoscevo i clienti e sapevo come trattarli. Poi dopo quasi vent’anni di servizio, pagato alla settimana, ho voluto prendere la mia strada autonoma. E in ciò devo essere grato a mia madre.
E perché a tua madre?
Perché quando ero ancora un dipendente, lei fece richiesta al Comune della licenza per la vendita all’interno del mercato. Fu previdente, nel caso io avessi deciso di mettermi in proprio, come poi è stato. Così ho trovato la strada spianata.
La tua famiglia è originaria di Pozzuoli?
Con i miei figli siamo alla quarta generazione di puteolani. Il mio bisnonno materno era di Aversa. Invece il padre di mio nonno era un farmacista abruzzese.
Come si svolge la tua giornata-tipo?
In genere mi sveglio alle 6, per stare alle 7 al mercato. In passato non era così, mi alzavo anche alle 3, alle 4, era massacrante. Oggi non ho impegni con nessuno, scendo e scelgo i pesci che più mi piacciono, non ho fornitori fissi. Al mercato all’ingrosso ce ne sono tra gli 8 e i 12, a cui fanno riferimento vari pescatori e capi-paranza. Oltre che da Pozzuoli, provengono da Procida, Resina, Castellammare, Gaeta.
Cambieresti il tuo mestiere? Quale futuro immagini per i tuoi figli?
Forse oggi cambierei mestiere, perché è stancante. E poi non dà mai certezze. Dalla mattina alla sera non sappiamo cosa può accadere. I miei due figli hanno preso un’altra strada e io e mia moglie li abbiamo incoraggiati. Soprattutto il più piccolo, Antonio, poteva inserirsi nel mio settore, ma venendo ad aiutarmi ha toccato con mano le difficoltà. Hanno studiato tutti e due chimica. Il primo, Vincenzo, lavora da un po’ di tempo con un’azienda che produce materiali ferroviari. Con sacrifici e grande caparbietà, anche il secondo lo ha seguito nello stesso settore, ma con mansioni diverse. Da quando hanno intrapreso questi nuovi mestieri io non ho mai più chiesto loro di venire ad aiutarmi, perché rispetto il loro giorno di riposo. Sono due ragazzi con la testa sulle spalle.
Raccontami di una vendita eccezionale di pesce.
Qualche Natale fa, era il 23 dicembre, venne il fratello di un mio amico con alcuni clienti molto facoltosi, erano medici. Si presentarono con delle bottiglie di prosecco, io feci loro trovare della merce stupenda, che cominciammo a consumare lì: gamberi, scampi, pesce crudo. Si può dire che i festeggiamenti di Natale cominciarono al mercato. Eravamo tutti brilli e allegri. Fu uno spettacolo anche per chi assistette. Il guadagno fu enorme.
Hai ricordi del bradisismo ’83-’84?
Era il periodo in cui lavoravo in proprio. Ricordo una notte con centinaia di scosse, noi abitavamo vicino alla Villa Comunale. Scendemmo in strada, mia madre (Maria Capone ndr) aveva solo uno scialle sulle spalle e c’era il fuoco acceso. A un certo punto, uno dei marmi che circondavano le aiuole esplose per la vicinanza della fiamma e una grossa scheggia colpì mia madre che si ferì alla gamba. Dopo essere stata medicata, mi disse: “Pieri’, si aggia murì, vac’ a morì a casa mia!”. E infatti se ne andò a casa a mettersi nel letto, dove rimase tutta la notte nonostante le scosse.
Dammi qualche altro ricordo di famiglia. Che attività svolgevano i tuoi genitori? Come vivevate?
Mio padre Vincenzo si arrangiava a fare vari mestieri, ma era un giocatore di bigliardo, perciò non portava quasi nessun guadagno. Mia madre faceva il pane in casa: pagava una persona che andava a infornarlo a Via Napoli da Mastro Vicienzo ‘u munnaro (il mugnaio ndr). Io ero piccolo e stavo sempre con lei, perché avevo un problema e non camminavo. Per pagarmi le cure mia madre si ridusse sul lastrico, mentre mio padre giocava, perciò la situazione economica era difficilissima. Una notte, mia madre dormiva appoggiata alla spalliera del letto, quando sentì la porta di casa aprirsi e apparire una figura di donna, che lei ha sempre chiamato “la Fata”, piena di gioielli e un velo sulla testa, come una zingara. Mentre mia madre cercava di svegliare mio padre, “la Fata” versò sulla tavola una montagna di soldi e le disse: “Mari’, questi non ti mancheranno più”. Poi rimise tutti i soldi nel grembiule e andò via. Il giorno seguente mio padre seppe di aver ottenuto un posto all’Italsider. Da allora diventò un padre e un marito perfetto, smise di giocare. La nostra condizione economica cambiò decisamente in meglio.
Quindi anche tu devi ringraziare l’apparizione della “Fata”?
Sì, ma non è l’unica cosa strana della mia infanzia. Quando io ero piccolo, i miei primi 5 anni li ho trascorsi in una casa dove c’era il “Munaciello”. Si trovava in una traversa di Via Giovanni de Fraia. Tu non ci crederai, ma io ne ricordo il volto, a forma di nuvoletta. Anche mia mamma lo ha visto. Quando qualche amica le chiedeva se non avesse paura a lasciarmi da solo con lo spiritello, lei la rassicurava dicendo che non era di quelli che fanno del male. Allora anche io ero tranquillo, ma oggi se mi capita di passare nel vicolo dove c’era la nostra prima casa, avverto un senso di paura. Si dice che in quella casa abitassero delle suore addette all’assistenza di bambini con malattie infettive e che i loro corpi siano stati tumulati nelle mura dell’edificio. Addirittura, quando a mia mamma portavano il pane appena sfornato, spesso si sentiva uno scricchiolio: era il “Munaciello” che assaggiava (ride).
Di quest’ultimo ricordo non colpisce tanto la rievocazione del “Munaciello”, figura tipica del folklore, di cui già Matilde Serao diede una gustosa descrizione nelle sue Leggende napoletane (1881), quanto piuttosto il tono calmo e serafico, talvolta divertito, con cui Pierino ne parla, come di una presenza familiare. Una riflessione si impone invece sulla vicenda dei figli di Pierino: la loro scelta lavorativa descrive una parabola simile a quella percorsa poco più di un secolo fa da contadini, artigiani e lavoratori del settore ittico che, dopo l’apertura dello Stabilimento Armstrong (1882) e dell’Ilva di Bagnoli (1906), si convertirono in operai specializzati nel ramo siderurgico. La stessa dinamica sembra ripetersi oggi, sia pure con molte differenze, perché siamo in una fase di deindustrializzazione e gli stabilimenti rimasti sul territorio sono pochissimi. Colpisce però che le speranze di Pierino per i suoi figli debbano essere ancora riposte nell’impiego industriale e non, ad esempio, in quello turistico o magari sempre in quello ittico ma con una prospettiva di crescita e specializzazione.